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La fondatrice del Green Belt Movement, Wangari Maathai, è una delle donne che hanno fatto la storia in Kenya e nel mondo. Attivista politica, attraverso l’organizzazione non governativa aiuta le donne dei paesi rurali. Il movimento dal 1977 si è diffuso in tutto il mondo, collaborando con il Programma delle Nazioni Unite.

 

Biografia tratta da www.enciclopediadelledonne.it/

 

Quando il Kenya era una colonia inglese, le figlie dei contadini Kikuyu non andavano a scuola. Un fratello di Wangari convinse però la madre a lasciare che lei frequentasse con lui le elementari del villaggio e un insegnante la raccomandò alla scuola primaria Santa Cecilia, un pensionato della missione cattolica di Nyeri. Wangari si convertì al cattolicesimo, all’esame delle medie fu prima della sua classe e ammessa al liceo, l’unico liceo femminile del Kenya.
Si laurea in biologia. «Un periodo liberatorio, ma anche inquietante… Fino a quel momento ero vissuta fra le suore, come una suora».

Nel 1971 è la prima keniota a ricevere un dottorato e nel 1974 la prima a diventare professore assistente. Organizza la lotta delle lavoratrici dell’università per un salario decente, milita nella Croce Rossa, nel Consiglio nazionale delle donne del Kenya e come rappresentante delle universitarie, entra nell’Environmental Liaison Centre che promuove la partecipazione delle organizzazioni non governative al Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP).

Durante la giornata mondiale per l’ambiente del 1977, con altre donne del Consiglio nazionale, pianta sette alberi in un parco appena fuori città. «Un simbolo di pace», spiegherà. È l’inizio del movimento femminile Green Belt, contro il degrado ambientale, ma anche contro la corruzione e il “tribalismo”.

Le attiviste sono picchiate, incarcerate, minacciate di morte, ma continuano a distribuire semi e a insegnare alle altre a curare i vivai, a difenderli con forme di lotta non violente, protette da agenzie dell’Onu e da Ong straniere, e finanziate dalla Società forestale norvegese. Nel 1985 il terzo vertice delle Nazioni Unite sulle donne si tiene a Nairobi, le delegate sono accompagnate a vedere gli alberi da frutta e da legna che stanno crescendo attorno alle scuole, alle chiese, ai campi coltivati. Ne nasce il Pan African Green Belt Network che in quindici paesi combatte la desertificazione, la siccità e la fame. Il risultato: una cinta verde di quasi 30 milioni di alberi che attraversa l’Africa subsahariana.
Mentre Wangari Mathai colleziona premi internazionali, la sua popolarità e quella di Green Belt continuano a crescere e il movimento si trasforma.
Lotta anche per la democrazia, giustizia uguale per tutti, diritti umani e civili, libertà di espressione, e più tardi cancellazione del debito estero dei paesi più poveri.

Le campagne di diffamazione, gli arresti e i processi si moltiplicano. Mwangi Mathai accusa la moglie di tradirlo, di essere una ribelle che «non riesce più a controllare», di trascurare lui e i figli, e vince la causa di divorzio. Gli fa eco Daniel arap Moi: quelle donne sono una minaccia per l’ordine pubblico, devono tornare a casa e ci penserà lui a convincerle. La sua repressione è così brutale da suscitare le proteste di governi stranieri.
Nel 2002 Wangari Maathai – con una “a” in più perché l’ex-marito le ha vietato di usare il cognome da sposata – si presenta alle elezioni con la Coalizione arcobaleno. «Volevo far vedere che non c’erano solo ladri, che doveva esserci un altro modo di far politica, nel mio paese». Nella sua circoscrizione viene eletta con il 98% dei voti. Da vice ministro dell’ambiente e delle risorse naturali, nel 2004 rilascia un’intervista in cui sostiene che il virus dell’AIDS è stato creato da scienziati occidentali per decimare la popolazione africana. Lo stesso anno riceve il premio Nobel per la pace.
Nel 2005 è eletta presidente del Consiglio economico, sociale e culturale dell’Unione Africana e rappresenta il continente in assemblee internazionali. Nel 2007 perde le elezioni parlamentari, probabilmente per frode. Nonostante il cancro alle ovaie, insieme alle “sorelle Nobel” Betty Williams e Mairead Corrigan, Rigoberta Menchu, Jody Williams e Shirin Ebadi, fonda la Nobel Women’s Initiative per dar visibilità a quelle che come lei cercano di rendere il mondo un po’ più vivibile per tutti.