Il sistema di accreditamento per la formazione necessaria ai fini della qualificazione delle stazioni appaltanti viola le norme comunitarie? Presentata denuncia alla Commissione UE
Di recente si sono sollevati alcuni dubbi sulla legittimità dell’art. 63 comma 10 del Codice dei contratti pubblici, che istituisce un sistema di accreditamento per la formazione necessaria ai fini della qualificazione delle stazioni appaltanti.
L’introduzione di un sistema di accreditamento per l’attività di formazione
Il nuovo “Codice dei contratti pubblici”, di cui al Decreto Legislativo n. 36 del 31 marzo 2023, avrebbe dovuto adeguare la disciplina dei contratti pubblici a quella del diritto europeo, riordinando e semplificando la disciplina vigente in materia di contratti pubblici, al fine di evitare l’avvio di nuove procedure di violazione da parte della Commissione europea.
Ciò nonostante, l’art. 63 comma 10 suscita una serie di interrogativi e preoccupazioni circa il rispetto dei principi fondamentali sanciti dalle disposizioni di livello europeo, aprendo la strada a possibili controversie legali e procedimenti di infrazione.
La qualificazione è un metodo volto ad accertare la capacità delle stazioni appalti di procedere autonomamente agli acquisti di forniture e servizi sopra i 140.000 euro e di lavori sopra i 500.000 euro. I requisiti di qualificazioni riguardano, tra l’altro, l’adeguata formazione del personale.
L’articolo 63 del nuovo codice istituisce un sistema di accreditamento per la formazione necessaria ai fini della qualificazione, stabilendo che:
soltanto i soggetti in possesso del relativo accreditamento potranno svolgere l’attività formativa utile ai fini della qualificazione delle stazioni appaltanti;
solamente le istituzioni pubbliche o private, senza finalità di lucro, potranno ottenere l’accreditamento;
la definizione dei requisiti per l’accreditamento viene demandata alla Scuola Nazionale dell’Amministrazione, che tuttavia svolge la medesima attività formativa.
Ebbene, una simile restrizione non appare né giustificata né ragionevole, oltre che contraria ai fondamentali principi di uguaglianza e non discriminazione sanciti dall’Unione Europea.
È legittimo limitare l’esercizio dell’attività di formazione?
Si deve premettere che, in linea generale, l’accesso ad un’attività o il suo esercizio possono essere limitati dalla normativa nazionale, ma a condizione che i limiti posti siano non discriminatori e giustificati obiettivamente da motivi imperativi di interesse generale e proporzionati (punto 69 e art. 15 direttiva n. 2006/123/CE).
Secondo i principi dettati a livello comunitario – fatte salve le disposizioni istitutive e relative ad ordini, collegi e albi professionali – i regimi autorizzatori e i sistemi di accreditamento possono essere istituiti o mantenuti a tutela dei consumatori, per la protezione dell’ambiente, della pubblica sicurezza e della sanità pubblica, nonché per la necessità di rispettare il diritto del lavoro.
Non pare che la limitazione prevista dal citato art. 63 risponda ad un interesse generale meritevole di tutela, anche in considerazione del fatto che la norma di per sé fissa unicamente il requisito dell’assenza del fine di lucro, rimettendo la definizione degli ulteriori requisiti alla Scuola Nazionale dell’Amministrazione.
L’art. 63 comma 10, di conseguenza, pare violare l’articolo 49 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) sul diritto di stabilimento e l’articolo 56 del TFUE sulla libera prestazione dei servizi, limitando l’accesso al mercato della formazione pubblica solo a determinati soggetti selezionati dall’autorità nazionale senza una giustificazione sufficiente.
Sul requisito del “fine di lucro” per l’ente di formazione
La norma, inoltre, pare irragionevole e lesiva del principio di non discriminazione nella parte in cui sancisce che solamente le istituzioni senza finalità di lucro, pubbliche o private, potranno ottenere l’accreditamento per lo svolgimento dell’attività in questione.
La giurisprudenza della Corte europea ha stabilito, a più riprese, che un ente, anche se non persegue fini di lucro, può esercitare un’attività economica ed essere considerato come un'”impresa” per l’applicazione delle norme del diritto comunitario.
Se quindi tutti gli operatori, con “fine di lucro” o senza, devono essere trattati nel mercato su un piano di parità e in modo non discriminatorio (art. 18 Direttiva 2014/24/UE), non pare legittimo e ragionevole che determinate attività economiche, come la formazione ai fini della qualificazione delle stazioni appaltanti, siano riservate unicamente ad alcuni di essi.
Peraltro, il fatto che solo i soggetti “senza fine di lucro” potranno accreditarsi per tale tipo di attività, determinerà una loro irragionevole posizione dominante nel mercato relativo a tutti i servizi di formazione. Tali soggetti, infatti, qualificandosi come operatori economici, potranno partecipare a tutte le procedure ad evidenza pubblica per qualsivoglia attività di formazione e consulenza a favore delle stazioni appaltanti, nonché offrire le loro prestazioni nel mercato, godendo tuttavia di maggior preferenza e credibilità rispetto agli altri operatori economici privi del medesimo accreditamento.
Questo determinerà una riduzione della qualità ed economicità dei servizi resi, posto che una maggiore competitività nel mercato dei servizi è essenziale per promuovere un continuo miglioramento dell’offerta.
Il ruolo di SNA – Scuola Nazione dell’Amministrazione
Inoltre, il fatto che la Scuola Nazionale dell’Amministrazione sia incaricata di definire i requisiti per l’accreditamento e di effettuare le relative verifiche, solleva preoccupazioni riguardo alla sua imparzialità e indipendenza. L’assegnazione di questo ruolo a un’istituzione che eroga formazione nel settore stesso a cui si applica l’accreditamento potrebbe rappresentare un potenziale conflitto di interessi, in violazione, ancora una volta, del principio di parità di trattamento e non discriminazione sancito dall’articolo 18 della Direttiva 2014/24/UE, nonché in violazione del divieto di sfruttamento abusivo di posizione dominante previsto dall’ art. 102, paragrafo 1, TFUE.
Si evidenzia che la SNA ha già provveduto a redigere la bozza di decreto contenente i requisiti per l’accreditamento delle istituzioni che potranno svolgere attività di formazione in materia di contratti pubblici. Le linee guida approvate sono state definite da un Gruppo di Lavoro composto da rappresentanti della SNA, del Dipartimento Funzione Pubblica, di ANAC e del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.
In sintesi, vengono indicati requisiti molto restrittivi, quali, ad esempio, la presenza di un comitato scientifico composto da docenti universitari, che, evidentemente, privilegia la SNA stessa.
Albonet presenta una denuncia alla Commissione Europea
In conclusione, è evidente che il nuovo Codice dei Contratti Pubblici italiano solleva gravi interrogativi sulla sua conformità con il Diritto dell’Unione Europea. È imperativo che il Governo italiano affronti queste preoccupazioni e adotti le misure necessarie per garantire che il codice sia pienamente conforme alle leggi europee. Solo attraverso un’attenta revisione normativa e un rispetto rigoroso dei principi comunitari sarà possibile evitare controversie legali e assicurare la legalità e la trasparenza nel settore degli appalti pubblici italiani.
Lo Studio Albonet, che fin dal 1999 si occupa di formazione in materia di appalti, ha già provveduto ad inoltrare, in proposito, una denuncia alla Commissione UE ai sensi dell’art. 227 TFUE.
Per ora, non essendo ancora stato approvato formalmente il regolamento della SNA, pare siano preclusi altri strumenti giurisdizionali di diritto interno.
Tuttavia, non appena il provvedimento verrà pubblicato in Gazzetta Ufficiale, si ritiene che numerosi operatori ne faranno valere l’illegittimità di fronte ai giudici nazionali, evidenziando, tra l’altro, il contrasto anche con l’art. 41 della nostra Costituzione, che sancisce il principio di libertà dell’iniziativa economica.
di Alessandro Boso – fonte : https://www.lavoripubblici.it/news/violazioni-diritto-ue-nuovo-codice-contratti-pubblici-italiano-32960