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Viaggio a Ventimiglia, nell’inferno dei migranti

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AGI – “Voglio andare in Francia: ho pagato con la mia famiglia 500 dollari per arrivarci”. Amhed è sudanese e ha 19 anni. Indossa una t shirt e un paio di jeans. E’ magro e il suo viso incornicia grandi occhi scuri e un sorriso amichevole.

Quando Agi lo incontra a Ventimiglia, ci separa una piccola rete metallica: è una sottile “frontiera” tra l’area di un parcheggio e la vegetazione che costeggia il letto del fiume Roja, all’ombra di un cavalcavia dove centinaia di auto transitano senza sosta, incuranti di quel piccolo mondo disperato nascosto tra piloni e arbusti. Pochi chilometri più in là c’è l’autostrada e una frontiera ben più grande e apparentemente invalicabile per i tanti Amhed “parcheggiati” nella città ligure: è il confine di Stato tra Italia e Francia, quella linea invisibile che divide il sogno dalla concreta possibilità di vivere una vita migliore.

Sulla piccola “frontiera” metallica che invece separa noi dal 19enne, c’è segnale che indica “pericolo allagamenti”. Ahmed non sa cosa significhi. Glielo spieghiamo, si volta a guardare il fiume che scorre placido e innocuo oltre il pietrisco e gli arbusti e fa spallucce. Non parla italiano: racconta in un inglese risicato che il suo viaggio è cominciato mesi fa ed è stato duro.

E’ solo, senza famiglia, e da sei giorni gli argini del Roja, di fronte alla chiesa delle Gianchette, è “casa” sua. Con lui ci sono una decina di altri ragazzi: mentre li osserviamo, condividono un paio di pizze e sei lattine di Coca Cola in tutto. Li circondano stracci, un paio di vecchi materassi e un filo improvvisato dove è stesa biancheria intima. Ahmed è l’unico che si è alzato per parlarci: sembra il più giovane, gli altri ci guardano con diffidenza.

Uno fa avanti e indietro con la bicicletta nel lungo tratto che costeggia il fiume, quasi fosse una vedetta, di ronda. Qualche metro più in là, sulla strada, un mezzo dei carabinieri e un altro della polizia, controllano la situazione. Sembra “normale amministrazione”: come se un gruppo di persone senza niente che dormono sotto un ponte fosse una scena abituale qui, nella città cerniera tra Italia e Francia.

Ed è così, conferma all’Agi Christian Papini, direttore della Caritas: “Da quando è stato chiuso il Centro di prima accoglienza, la presenza di persone che si accampano per strada è aumentata. Come Caritas, fino a due settimane fa, abbiamo contato 300 persone al giorno che sono passate da noi. Senza contare gli altri che sono fermi alla frontiera, o i tanti che si accampano alla Foce del Roja, in spiaggia, che magari non ci conoscono – racconta quando lo raggiungiamo in sede – Il periodo che temiamo di più è però tra fine giugno e inizio luglio, perché si sommano coloro che arrivano dalla rotta balcanica agli sbarchi. Certo, il Centro non è da leggere come soluzione, ma come riduzione del danno”.

La presenza di migranti in città varia costantemente e dipende dai respingimenti alla frontiera: se i controlli vengono allentati, i passeur fanno transitare le persone, anche dal Passo della Morte e la città si “svuota”, mentre quando le maglie al confine si stringono, Ventimiglia diventa un limbo che può trasformarsi in purgatorio o reale inferno per centinaia di migranti.

“Rispetto al 2016 – sottolinea comunque Papini – non c’è paragone: i migranti oggi sono molti meno. Il problema attuale è che si sta aprendo sempre di più la rotta balcanica, con bengalesi, siriani, afghani che passano su due percorsi: alla rotta consueta, infatti, si aggiunge quella che passa da Serbia, Romania, Bulgaria e Austria da dove i migranti arrivano con i camion. Bisogna vedere cosa succederà quando si sommeranno questi due flussi”.

Di fronte alla Caritas di Ventimiglia, a ridosso della stazione, ci sono una ventina di persone: sono tutti uomini, assistiti da volontari. Siedono a terra, hanno l’aria stanca. Il sole picchia forte in questo giugno, anche se non è ancora mezzogiorno. Alcuni si gettano in testa una bottiglietta d’acqua, altri mostrano fogli ai volontari, altri ancora approfittano della poca ombra che gli regala un’automobile in sosta.

Caritas: principalmente arrivano uomini giovani ma anche tantissime famiglie

“Principalmente arrivano uomini, soprattutto giovani – spiega Papini – La famiglia d’origine fa un vero investimento su di loro. Ma non abbiamo certo a che fare solo con i ragazzi. Ci sono tantissime famiglie, con bambini piccoli, anche di 10 giorni. Arrivano dal Sudan, dalla Costa d’Avorio. Ci sono tantissimi curdi che passano da Turchia, Grecia e infine Puglia. Molti sono eritrei, in questo caso soprattutto giovani. Cresce costantemente il numero dei minori non accompagnati: l’anno scorso abbiamo raggiunto gli oltre 700 in un anno, quest’anno, in percentuale, siamo già oltre. Si muovono in piccoli gruppi e, sempre in gruppo, tentano di passare la frontiera”.

Il responsabile della Caritas di Ventimiglia, una struttura che funziona da mensa (anche se con la pandemia è diventata d’asporto), ambulatorio, ufficio di consulenza legale, area giochi per bimbi, avamposto in mezzo al disagio, ci racconta di quanto sia “enorme il problema sulle informazioni di cui sono in possesso queste persone: pensano infatti di trovare il paradiso in Germania, Olanda, ma sappiamo che non è così. Noi cerchiamo anche di dare le informazioni corrette. Ci avvaliamo di mediatori, di consulenti legali. Da settembre ad aprile scorsi sono passate di qui quasi 11mila persone”.

Undicimila storie diverse, dalle famiglie ai minori soli, dalla persona psicologicamente fragile alla donna stuprata. “Vista l’assenza dello Stato, presente solo con le forze dell’ordine – dice Papini – tutto quello che stiamo riuscendo a fare, lo facciamo con la rete dei volontari, delle varie associazioni che si sono messe insieme per dare un servizio che è una goccia nell’oceano, ma è comunque qualcosa. Ci occupiamo dell’accoglienza delle famiglie che, per due, tre giorni, hanno così il tempo di riprendersi, prima di tentare di attraversare la frontiera.

Tendenzialmente i migranti qui a Ventimiglia si fermano massimo una settimana. Poi c’è tutto il problema dei clandestini, dei vulnerabili, degli psichiatrici: loro restano più tempo. Sono usciti fuori dai percorsi di accoglienza come successo a Musa (Baide, 23enne della Guinea pestato da 3 persone a Bordighera lo scorso maggio e morto suicida nel Cpr di Torino, mentre era in attesa di essere rimpatriato), ma ce ne sono molti così. Tutti a rischio, tutti senza dimora”.

Il bar che li assiste è stato abbandonato dai clienti abituali e subito atti vandalici

Ma come vive Ventimiglia la situazione? Sempre nei pressi della stazione che sembra “militarizzata” tanta la presenza di carabinieri, polizia, soldati in costante presidio dell’area, vi è un bar che, a partire dal 2015, è stato ribattezzato “Bar dei Migranti”. Il suo nome in realtà è “Bar Hobbit” e, a gestirlo, c’è Delia Bonuomo. La incontriamo seduta su una delle sedie del piccolo locale, intenta ad accudire il nipotino.

Non ci sono clienti, nonostante si avvicini l’ora del pranzo e la zona sia di passaggio: “Da anni i proprietari dei negozi qui intorno non prendono più il caffè qui – racconta all’Agi una volta raggiunto il bancone – Qui nessuno vuole il mio bar: il condominio qui sopra aveva fatto persino una petizione per mandarmi mia. Perché? Perché non ho voltato le spalle a mamme e bambini in lacrime, a persone che avevano fame per davvero, a chi aveva bisogno d’aiuto”.

Quel semplice locale, infatti, quando gli arrivi a Ventimiglia si erano fatti inarrestabili quasi 6 anni fa ormai, era diventato prima un punto di prima informazione per i tanti migranti approdati nella città di confine, poi uno spazio di breve sosta, infine un luogo amico, sicuro, a migliaia di chilometri da casa.

“I primi giorni mi chiedevano dove trovare un ufficio postale, oppure un telefono, qualcuno voleva indicazioni su dove dirigersi per raggiungere l’autostrada. Pian piano hanno cominciato a chiedermi anche un sorso d’acqua, una presa per caricare il telefono – racconta – Nessuno all’inizio aveva il coraggio di entrare nel bar perché gli altri locali gli avevano sbattuto le porte in faccia. Quando hanno capito che, col poco che avevo, potevo dargli una mano, si sono fidati. Ho fatto usare il bagno a mamme con neonati tanto sporchi da farmi venire il cuore piccolo. Ho ascoltato storie di donne che avevano perso figli annegati in mare, o avevano subito stupri e sofferenze di ogni tipo, tanto da non riuscire a non piangere. E mi porto ancora dietro quel dolore”.

Delia non ha solo offerto il suo spazio in via Hanbury: ha attivato una piccola rete di amici e cittadini che si sono messi a raccogliere abiti, oggetti di prima necessità, che hanno offerto lezioni di italiano gratuitamente. “Due dei ragazzi a cui ho dato una mano, ora sono mediatori per la Caritas – ci rivela orgogliosa – Hanno una casa, ci ho messo io la faccia per fargliela avere, con la pretesa che non sforassero mai i tempi di pagamento dell’affitto. E hanno ripagato sempre la mia fiducia. Non sempre è stato così. Ma ora so distinguere le lacrime vere da quelle di coccodrillo, la fame vera dalla gola, la voglia di farcela, dall’assenza di prospettive”.

Per questa sua umanità, Delia ha subito attacchi da molti, non solo ingiurie e boicottaggi del locale, ma anche atti vandalici contro il bar stesso. Non ultima la pietra lanciata contro una vetrina durante il lockdown. Ma questo non l’ha fermata: “La sera vado a letto serena: so che aiuto gli italiani pagando le tasse, mentre aiuto gli altri col poco che ho. Anche perché, a queste persone, nessuno pensa, se non il mondo del volontariato”.

Mentre parliamo con Delia, entra un ragazzo con una birra in mano e un trancio di pizza incartato: è straniero e conosce la titolare dell’Hobbit. La saluta con educazione e le chiede se può usare il bagno. Lei gli sorride e gli dice di andare, senza problemi. “Lui è da poco che è qui – racconta Delia – Non lo vedevo da qualche giorno: oggi è tornato e sembra star bene. Ma quella birra mi preoccupa”, aggiunge con tono materno. Il giovane potrebbe aver tentato di passare la frontiera, senza riuscirci.

Molti diventano alcolisti dopo aver subito diversi respingimenti

“Quando si susseguono i respingimenti – racconta Papini della Caritas di Ventimiglia – partono anche le derive psicologiche per queste persone e l’alcol rappresenta il loro antidepressivo. Quando si tenta di passare la frontiera e più volte si viene respinti, fino ad avere il foglio di espulsione, quando si torna indietro non si ha più niente: né speranze, né prospettive, né alternative. E allora si comincia a bere. Molti purtroppo finiscono così, per strada, alcolisti”.

Un giovane migrante ubriaco lo incontriamo proprio davanti alla stazione. E’ sdraiato all’ombra di una pianta e farfuglia frasi incomprensibili. Viene avvicinato da un carabiniere, gli dice che non può stare lì. Di fronte a quell’edificio, meta ambita da tanti migranti che provano la traversata in treno per arrivare oltre confine, ci sono decine di divise diverse: carabinieri, poliziotti, soldati. Sembra una zona di guerra, senza le ferite della guerra: eppure la tensione si percepisce, come tizzone ardente sotto uno strato di cenere.

“C’è ancora un pizzico di resilienza nell’aria – osserva Papini- Ma il rischio è che, di fronte a questi numeri di nuovo in aumento, la tensione diventi sociale. La gente fa fatica a capire il problema e le sue cause e si arrabbia”. Una rabbia che si trasforma in aggressioni, pestaggi, come i recenti casi di cronaca hanno dimostrato. La città è stanca, i volontari sono stanchi, le stesse forze dell’ordine sembrano stanche di una situazione che si protrae negli anni senza reale soluzione. Di fronte a questa stanchezza, lavorano invece incessantemente i passeur, principalmente nigeriani, braccio operativo di menti spesso ascrivibili alla criminalità locale o organizzata. E i viaggi continuano, perché la speranza e la paura sono più forti di qualsiasi altro rischio:

“Un afghano pochi giorni fa si è presentato qui: gli avevano tagliato due dita in Serbia perché gli aveva preso fuoco una mano – racconta il responsabile della Caritas – E’ arrivato da noi con una benda che non toglieva da oltre 6 giorni. Urlava quando abbiamo provato a toglierla, una cosa inimmaginabile. E poi abbiamo incontrato un’altra famiglia che aveva un bimbo autistico: sono passati dalla Libia, immaginate cosa sia stato farlo con un bambino in quelle condizioni. E poi madri con neonati di 10 giorni, nati per esempio a Lampedusa. Insomma, quando il sindaco di Palermo ha detto che siamo davanti ad un genocidio, ha detto la verità. Quando vengono da noi, i bimbi non chiedono altro che giocare, gli adulti invece di poter parlare. Ma la richiesta più grande è il riconoscimento dell’identità”.

Un’identità che vuol dire esistere, oltre numeri, classifiche, statistiche. Un’identità che passa attraverso la ricerca di un posto nel mondo. Una ricerca che va oltre ogni rischio: “Nel 2016 incontrai una piccola famiglia del Sudan  – svela Papini – Erano marito, moglie incinta e fratello. A 6 giorni dal loro arrivo qui a Ventimiglia, mi confidarono che l’indomani sarebbero saliti al volo sul treno, provando a passare la frontiera. Al mio tentativo di metterli in guardia sui rischi, specie per una donna incinta, il capofamiglia mi rispose: non sono morto nel deserto, non sono morto nel mio Paese, non sono morto in Libia, non sono morto nel Mediterraneo. Eppure mi hanno torturato, hanno violentato mia moglie. Secondo te mi preoccupo di saltare su un treno? Di fronte a quelle parole – conclude il responsabile dell’avamposto di solidarietà di Ventimiglia che resiste, nonostante la pandemia e nonostante uno Stato lontano e apparentemente disattento al problema – mi sono accorto che non potremmo mai davvero comprendere cosa vivono queste persone”.

Source: agi


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