Fonte: Il Foglio – testo realizzato con l’intelligenza artificiale
C’è una domanda che continua a girare, come il cucchiaino nella tazza di latte d’avena nei bar intellettuali del centro: ma i vegani fanno davvero bene al mondo? Non nel senso della loro autopercezione di giustizia – che pure merita attenzione – ma nel senso letterale: esistono prove, dati, studi che confermino che l’eliminazione di carne, pesce, latte e uova abbia effetti benefici per l’ambiente, per la salute pubblica, per l’etica condivisa e persino per l’economia? Proviamo a mettere ordine in questa giungla di cavoli e certezze. L’ambiente è, tra tutti, il fronte meno controverso. L’ultimo studio dell’oxford Martin School pubblicato su Nature Food ha comparato 55 mila diete diverse e stabilito che una dieta vegana comporta fino al 75 per cento in meno di emissioni di gas serra rispetto a una onnivora ad alto consumo di carne. Non solo: i vegani consumano meno della metà dell’acqua dolce e occupano il 75 per cento in meno di suolo agricolo. Il sistema alimentare globale è responsabile del 34 per cento delle emissioni globali, del 70 per cento del consumo d’acqua e del 75 per cento della deforestazione legata all’uso del suolo. In questo scenario, i vegani si muovono come formiche su un terreno di orsi: piccoli, ma leggeri. Certo, non basta essere vegani per salvare il pianeta – anche l’avocado ha i suoi problemi, e le navi che portano la quinoa dall’america
Latina consumano carburante – ma i numeri sono chiari: mangiare vegetale è il modo più efficace per ridurre l’impronta ecologica individuale. Questo è, come direbbero gli anglosassoni, certified.
Anche sul fronte della salute pubblica le evidenze sono numerose e convincenti. Gli studi longitudinali mostrano che i vegani, in media, hanno tassi inferiori di obesità, diabete di tipo 2, ipertensione e malattie cardiovascolari. La dieta vegetale abbonda di fibre, antiossidanti e grassi insaturi. Ma qui le cose si complicano: una dieta vegana male impostata può portare a carenze di vitamina B12, ferro, calcio, omega-3. E se ignorate, queste carenze possono causare anemia, osteoporosi e problemi neurologici. E’ un paradosso del progresso: per vivere bene da vegani serve una consapevolezza nutrizionale che non tutti hanno. E magari anche una farmacia ben fornita. La posizione delle maggiori associazioni nutrizionali è prudente ma positiva: una dieta vegana ben bilanciata è adatta a tutte le età, gravidanza compresa. Quindi sì, fa bene alla salute – a patto di farla bene.
L’etica è probabilmente la spinta più profonda e divisiva del veganismo. Si fonda su un principio elementare ma rivoluzionario: evitare sofferenze evitabili. Il che significa: se posso vivere bene senza uccidere o far soffrire altri esseri senzienti, perché non dovrei farlo? L’anti-specismo di Peter
Singer – secondo cui discriminare un animale solo perché non è umano è moralmente analogo al razzismo – è ormai entrato nei dibattiti accademici e nelle leggi: l’ue ha riconosciuto gli animali come esseri senzienti, e ha iniziato a discutere la messa al bando delle gabbie negli allevamenti. Ma l’etica non si scrive solo sui libri: si scontra con le tradizioni, i gusti, i vincoli economici. Non tutti vogliono (o possono) fare i conti con la morale ogni volta che siedono a tavola. Eallora il veganismo resta, almeno per ora, più un ideale che una norma universale. Ma la sua forza sta proprio lì: nel porre la domanda, più che nell’imporre la risposta. E poi c’è la questione animale, che più che morale è materiale. Nel mondo si allevano ogni anno oltre 70 miliardi di animali terrestri destinati alla macellazione, molti dei quali in allevamenti intensivi dove lo spazio vitale è ridotto, la luce naturale inesistente, e il dolore una condizione sistemica. E’ qui che il veganismo si mostra nella sua forma più radicale: come atto di interruzione di una catena di sofferenza normalizzata. I vegani non salvano animali uno per uno – non direttamente – ma agiscono sulla domanda. E come in ogni sistema di mercato, meno domanda = meno produzione. E’ una forma di attivismo silenzioso, ma reale. E a differenza delle campagne choc delle ong, il messaggio vegano passa dal frigorifero.
Ma la grande domanda che in pochi osano davvero porre è: cosa succederebbe all’economia se tutti diventassimo vegani? Gli allevamenti chiuderebbero, milioni di lavoratori perderebbero il lavoro, le campagne cambierebbero volto. Oppure no. Secondo uno studio dell’università di Oxford, una transizione globale a diete vegane entro il 2050 porterebbe a risparmi fino a 1.600 miliardi di dollari, grazie a minori costi sanitari e ambientali, e salverebbe 8 milioni di vite l’anno. Non è poco. Ovviamente, ci sarebbero perdite. Ma anche guadagni: l’agricoltura vegetale aumenterebbe, l’industria dei cibi alternativi esploderebbe, e si aprirebbero nuovi spazi per innovazione, ricerca, sostenibilità. Sarebbe una rivoluzione – sì – ma non una catastrofe. Alla fine la risposta è sorprendentemente netta. Sì, i vegani fanno bene al mondo. Ridurre la carne migliora il clima, la salute, la sorte degli animali e il bilancio statale. Ma fare del veganismo una nuova religione sarebbe un errore speculare. La sfida non è imporre tofu al posto della cotoletta, ma offrire consapevolezza, creare alternative valide, costruire una cultura del cibo che tenga insieme piacere, responsabilità e realismo. Forse i vegani non salveranno il mondo da soli. Ma hanno cominciato a fargli le domande giuste. E già questo – in tempi di chiacchiere, algoritmi e fake news – è un discreto atto rivoluzionario.