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UNA STORIA DI DONNE SUCCUBI

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Al “Piccolo Teatro” di Catania è andato in scena “Taddarite”, scritto da Luana Rondinelli, tre sorelle in veglia funebre per la morte del marito padre-padrone della più piccola, tra preghiere, esternazioni, pettegolezzi, rivelazioni e spietato cinismo

 

di Alfio Chiarello

 

Niente scongiuri, per cortesia. Non ce n’è bisogno. Di funereo in “Taddrarite” c’è solo la bara semichiusa, piantata come un baluardo in mezzo al palcoscenico. Il morto, almeno in questo caso, non c’è. O se si preferisce, c’è, ma non giace. Tutt’al più aleggia con discrezione, e solo perché evocato dalle veglianti. Per il resto, tanto ridere e tanti spunti di riflessione sulle sfumature dell’animo umano, sull’universo femminile e su alcune usanze della nostra terra che fanno tanto colore. “Taddrarite”, uscito dalla penna di Luana Rondinelli, che cura anche la regia e calca la scena come attrice, ha compiuto 12 anni, ma è ancora di straordinaria attualità per la vis comica del testo e per la denuncia civile che ne costituisce l’impalcatura. L’epicentro della pièce, rappresentata al Piccolo teatro della città di Catania, è la violenza domestica, un tema delicato su cui è facile scivolare sulla fuffa del politically correct e sulla retorica delle panchine rosse. Pericolo sventato.                                   “Ciò che viene rappresentato è una storia focosa, crudele – come spiega l’autrice – una storia vera di donne succubi, schiave, “sciroccate”, prese alla gola dalla morsa del destino che le accomuna, dai segreti stretti in grembo, dalle lingue morse pur di non parlare ed evitare la vergogna per rendersi coraggiose e sopportare le violenze dei mariti”. Va però sottolineato che la narrazione è declinata per intero al femminile (basta saperlo), e che alcuni stereotipi, (per ogni marito violento ce ne sono altrettanti che le violenze le subiscono) sono discutibili quando si assumono i toni della denuncia. Protagoniste della pièce sono tre sorelle (accanto a Luana Rondinelli, le atttrici Donatella Finocchiaro, e Giovanna Mangiù) che impersonano tre controversi personaggi, in veglia funebre per la morte del marito della più piccola, accomunate dallo stesso destino cinico e baro: botte da orbi da parte del coniuge. La notte di veglia trascorre fra preghiere e esternazioni. Dapprima qualche pettegolezzo, qualche peccatuccio veniale detto a mezza bocca, la rivelazione di un tradimento. Poi rivelazioni sempre più impegnative e travolgenti, violente, così da fare emergere qualcosa fino ad allora di inaspettato che manda in frantumi la dolcezza e l’accondiscendenza di facciata e mette in luce una velenosa voglia di riscatto, di manipolazione dell’uomo e di cinismo spietato.

Sarà il risultato delle vessazioni, delle botte, dei lividi che (almeno quelli dell’animo) non si cancellano mai? O c’è dell’altro, un vulnus insanabile che avvelena la vita di coppia? Di certo c’è che rotto l’incantesimo che condannava le mogli a subire ogni genere di vessazioni, comprese quelle sessuali, salta ogni limite. Il primo a farne le spese è il “compianto” marito di cui con impazienza si attende il definitivo commiato (per un’antica credenza, l’anima del defunto lascerebbe la camera ardente dopo 24 ore), un tempo amato e poi odiato fino al punto di essere ucciso. E’ questa una delle scene più coinvolgenti della commedia, non fosse altro che per la convincente ( e divertente) descrizione della perfidia di cui può rendersi capace una donna. La forza della pièce, del resto, è quella di accomunare, ai confini del surreale – così come sostiene l’autrice – ironia e drammaticità. Obiettivo centrato in pieno. Graffiante la prima, violenta e sanguigna la seconda. Una scelta che paga, considerato il favore del pubblico, “accontentato” pure con qualche gag non proprio originale, ma di sicuro effetto. Di assoluto valore il tentativo di mettere a nudo debolezze e punti di forza dell’animo femminile (chi meglio di una donna avrebbe potuto farlo)? Visione fortemente “sconsigliata” alle coppie in crisi e a chi è in procinto di sposarsi!