Una particella fantasma si aggira per l’Europa: il suo nome è Majorana
Un romanzo in prima persona, un’autobiografia struggente ed esaltante che in sette capitoli ripercorre le molte vite di un fisico brillante e complesso, che lascia dietro di sé ombre e suggestioni
Annarosa Macrì · 5 Gen 2023
La prima scena, se fosse un film, è di quelle che sobbalzi di sdegno e lasci da parte i popcorn. Un barbone. Trasandato, malmesso, anche se profuma di pulito. Appare vecchissimo, ma ha solo 54 anni. Siamo in un luogo non precisato della costa jonica calabrese. Due o tre ragazzi si accaniscono contro di lui e gli lanciano addosso dei pomodori. Acerbi. Gli fanno male. Lui non si offende. Pensa solo che è uno spreco, distruggere così i pomodori. Si chiama Andres, o meglio: decide di chiamarsi così, il nostro povero eroe che in realtà non sa più chi è. È stanco, è malato, si guarda allo specchio e parla a se stesso, una voce gli risponde, è quella della creatura che ha dentro, il suo doppio, la sua coscienza, il suo mostro. Forse è schizofrenico, forse è un originale, forse è un genio. Forse è matto. Certo è infelice. “Sono nato infelice”, dice di sé.
Nella notte, l’oltraggio dei pomodori diventa agguato, e Andres viene colpito da una gragnuola di pietre, alla testa. È ferito. Entra in coma. Perde conoscenza, come si dice, del tempo e dello spazio intorno a lui, ma la riacquista, la conoscenza, di sé, del suo passato, della sua storia, della sua vita. Quell’uomo è Ettore, Ettore Majorana. Il genio della fisica atomica, l’enfant prodige della meccanica quantistica, uno dei ragazzi di via Panisperna, il più enigmatico, misterioso e inquieto, quello che sparì all’improvviso, da Napoli, o forse da Palermo, quello che si suicidò, forse, o forse no, voleva solo fare perdere le sue tracce. Era così intelligente che ci riuscì benissimo. Sparì e nessuno seppe più niente di lui.
Questo era solo il prologo. In quella notte d’estate del 1960, Ettore Majorana trattiene con le mani la morte, lui sa come si fa, ha già rubato, come Prometeo, con le sue ricerche un lampo di luce al sole; un attimo, solo un attimo, per piacere, signora Morte, il tempo di ricordare la mia vita, cioè, insomma, le sette vite che ho vissuto: se fosse un film sarebbe un flashback, l’avvincente flashback di un thrilling sentimentale-storico-scientifico di grande impatto.
Ma è un romanzo, è L’atomo inquieto, un romanzo di rara potenza, perché, a raccogliere la confessione di Ettore Majorana, c’è uno sceneggiatore strepitoso, un biografo magistrale, un sorprendente Mimmo Gangemi, uno dei più inquieti tra i nostri scrittori, che abbandona giudici meschini e contadini, calabresi emigrati e possidenti corrotti, minatori e jazzisti, New York, la Sicilia, la Louisiana e l’Aspromonte e s’infila nel labirinto di uno dei misteri civili, esistenziali e scientifici più fitti della storia italiana recente: la scomparsa di Ettore Majorana. In tanti avevano provato a decifrarla – scienziati, poliziotti, magistrati, giornalisti – e tra loro Leonardo Sciascia, che aveva avvalorato la tesi del ritiro di Majorana nel Romitorio di Serra San Bruno; altri avevano dato credito al suicidio, altri ad una fuga in Argentina, altri ancora a un trasferimento, o rapimento, in Germania.
Tutte le ipotesi e le ricostruzioni lasciavano buchi, enigmi, interrogativi. Nessuno ci aveva scritto su un romanzo e Mimmo Gangemi, con la forza immaginifica che solo la grande letteratura riesce a fare, inventa la vita di
Majorana dopo la sua ultima lettera, e racconta i ventidue anni che vanno dalla sua scomparsa, nel 1938, alla nottata del coma, nel 1960. Restituisce la vita a Ettore Majorana, la sua straordinaria esistenza inquieta, fatta di sette vite, sette identità, sette capitoli di un unico romanzo, il romanzo dell’inquietudine. Questo fa la letteratura, mostra quello che non c’è, illumina le zone d’ombra, riempie vuoti, inventa vite verosimili, dà senso alla insensatezza del caso e del destino, e qualche volta ci prende, più della cronaca, più della storia.
Come nei migliori romanzi classici, Mimmo Gangemi è lo scrittore onnisciente, che sa tutto, e tutto crea, anzi, si sdoppia. Perché non racconta in terza persona, ma diventa lui stesso Ettore Majorana e racconta la sua vita in un lungo, dolente e appassionato flusso di memoria. Charles Foucault diceva che la letteratura è trasgressione – certo, lo è sempre – e che è parente della follia – certo, lo è sempre perché non è forse follia inventare le vite di chi non è esistito e, ancor di più, inventare la vita di chi è esistito?
Fonte: Il Riformista