AGI – Duecentomila bandiere e 26 mila militari. Cosa sta succedendo? I repubblicani denunciano una “occupazione militare”, battaglia politica contro i dem. Di certo, i numeri sono senza precedenti, come le immagini. Un po’ di storia.
Dopo l’assassinio di Martin Luther King, avvenuto a Memphis il 4 aprile del 1968, il presidente Lyndon Johnson dispiegò nella capitale 13 mila agenti federali per contrastare i disordini che seguirono l’uccisione del leader nero. Questa è Washington che attende Joe Biden per l’Inauguration Day. Il presidente non guarderà un fiume di americani giurando a Capitol Hill, ma un campo di bandiere che rappresentano tutti coloro che non sono potuti arrivare nella capitale.
Noi ci siamo, facciamo i cronisti, ma arrivarci è stata un’avventura.
Lunedì mattina, Martin Luther King Day, giorno di festa in America, parto da Houston, l’aeroporto Bush non è particolarmente affollato, ma davanti all’imbarco per il volo Washington DC-Reagan, lo scalo cittadino, si materializza una massa: 3 agenti della TSA (Transportation Security Administration); 4 poliziotti; 2 agenti del Secret Service (non tanto secret, o hanno la scritta che li qualifica o si riconoscono subito dagli auricolari); la deputata democratica del Texas Sheila Jackson Lee, 71 anni, afroamericana, da 14 anni eletta al Congresso, accompagnata da un’assistente.
Di solito, allo stesso gate ci sono al massimo tre hostess. Due che assistono i passeggeri e una che chiama al microfono l’imbarco. I controlli sono finiti, bagagli e documenti hanno passato il check, ma anche in questo caso succede qualcosa di nuovo quando è il momento di salire sull’aereo. Il biglietto non basta più, la polizia aeroportuale vuole vedere ancora i documenti, poi l’hostess passa il biglietto allo scanner e segue un altro controllo del bagaglio a mano. Finalmente a bordo.
La business class è piena (l’economy no), strano di questi tempi, ma siamo alla vigilia del giuramento di Biden e chi conta va a Capitol Hill.
Tre ore di volo, atterraggio a Reagan Airport poco dopo le 20, finora è andata bene. Bagaglio ritirato, zero fila, taxi, faccio rotta verso un albergo vicino al Campidoglio. L’auto arriva in centro in 15 minuti. Poi comincia un’altra storia. Che storia? Quella dei checkpoint di Washington DC. Primo checkpoint.
Sono trascorsi tre mesi dall’ultima missione nella capitale americana, ma la città è irriconoscibile. Sembra il territorio di un’occupazione militare. Il taxi viene fermato da uno schieramento di soldati che sbarra la strada con i mezzi militari. Il tassista abbassa il finestrino. “Di qui non si passa, andate in un altro ingresso”. Non vale niente, le credenziali media di fronte all’Esercito svaniscono, le prenotazioni degli alberghi aperti sono carta straccia, sembra l’applicazione di una legge marziale che in realtà non c’è, ma nei fatti esiste.
L’auto gira intorno a Capitol Hill per cercare un altro varco d’accesso. Andiamo avanti. Secondo checkpoint. Ancora la stessa formazione: i carri che bloccano la strada, i soldati armati che la difendono. Sono tutti giovanissimi, nessuno vive a Washington, di fatto non conoscono la città e non hanno idea di come indirizzare l’automobilista o la persona che a piedi cerca di raggiungere la sua meta. Senza bussola. I soldati stavolta sono più gentili, ma ugualmente inflessibili: “Da qui non si passa”. Siamo costretti a andare avanti, ma non si per dove.
Chiamo il direttore dell’AGI, qualche ora prima ha passato il checkpoint in taxi, tra la Sesta Strada e C Street. Solo lui, a quanto pare, tanto che quando spiego ai poliziotti che lo hanno lasciato transitare in auto, mi dicono che “non è vero”. Intanto sono passate le 21, continuiamo a girare, il tassista comincia a perdere la pazienza, il tassametro va, ma capisco che tra poco mi lascerà a terra.
Terzo checkpoint. Solita formazione, carri, soldati, mitragliatore, blocchi di cemento. Cerco il via libera mostrando il badge media rilasciato dal Dipartimento di Stato, un documento ufficiale del governo americano. Finalmente un barlume: “Ok, può passare, ma solo a piedi”. Con i bagagli, due personal computer, meno 3 gradi e l’albergo a circa tre miglia, in una Washington più deserta che mai. Mi arrendo, ok cammino.
Arranco per mezz’ora, mi fermo davanti all’Hyatt Regency, dove ci sono dei giornalisti che stanno facendo delle riprese con lo sfondo del Campidoglio. Anche qui la strada è sbarrata dai blocchi di cemento e da altri carri blindati dell’Esercito. Chiedo alla concierge dell’Hyatt se c’à una macchina disponibile. Niente da fare, non si può passare la barriera. Ma devo proseguire a piedi e con le valigie, non ho altra scelta davvero. Scatta la fase stanchezza (e paura).
Secret Service. A piedi supero la barriera, in strada siamo in due: io e il buio. Sono dentro la zona protetta, senza sapere esattamente se posso camminarci o no. Grande mistero notturno. Subito risolto. Mi ferma il Secret Service e mi chiede con una certa vivacità e sorpresa: “Lei come e’ arrivata qui?”. Risposta candida: “A piedi”. Contro replica dell’agente segreto: “Ma chi l’ha fatta passare?”. Risposta ultra semplice: “L’Esercito”. Elementare, Watson. Riepiloghiamo: sono a Washington, è notte, cammino da più di un’ora, dopo tre di volo, mi hanno fermato e interrogato l’Esercito degli Stati Uniti, la polizia e ora il Secret Service chiede lumi. Così scopro che la Guardia nazionale non sa cosa fa il servizio segreto che a sua volta non sa cosa fa la polizia. Notevole.
A un certo punto domando all’agente: “Può chiedere a un suo collega da quale checkpoint posso passare per raggiungere l’albergo?”. Risposta: “Lei non sa perché, ma noi non ci parliamo, e comunque da qui non può passare”. Bene, il dilemma giunge alla fase isterica, mi metto a piangere, e chiedo dove secondo loro dovrei andare a dormire, tutti gli altri hotel aperti sono infatti esauriti. Sei agenti del Secret Service, si guardano in faccia stralunati, si trovano di fronte alla grande minaccia di una donna con i bagagli, le lacrime e il freddo addosso. E sono passate le 22.
A un certo punto, vedo parcheggiata una golf cart con tanto di scritta Secret Service e… “Potete accompagnarmi voi, con quella lì, in albergo?”. Risposta in coro dei sei agenti: “No, non possiamo lasciare il checkpoint”. Assì? Piango ancora di più. A quel punto chiamano il capo. Gli racconto di nuovo tutta la storia, dall’aeroporto fino all’incontro con i suoi agenti. Negli occhi gli brilla un moto di pietà. E succede l’inatteso: prende le mie valigie, le mette a bordo della golf cart e mi dice: “Sali”. Ho pensato, è andata, mi accompagna in albergo. Invece no, mi spiega che l’auto è elettrica e non ha l’autonomia per arrivare all’hotel. E dove andiamo allora? Sembra un film di Mel Brooks.
L’agente del Secret Service fa una telefonata. “Ti metto al sicuro, ti porto da un amico poliziotto al checkpoint di Union Station, è un italo-americano, si chiama Pietro”.
Riepiloghiamo: sono a Washington, su una golf cart con il capo di una squadra del Secret Service che mi sta portando da Pietro, un poliziotto italo-americano, la mia ultima speranza. Arriviamo a Union Station, in mezzo alla strada, insieme ai carri blindati, c’è una volante. A bordo c’è lui, Pietro. Parla napoletano stretto. Suo padre è partenopeo, ma lui è nato e cresciuto qui. Saluto il capo del Secret Service, lo ringrazio, ora sono tranquilla,Pietro mi porterà in albergo. Illusione. “Da qua ora chiamo un Uber e gli dico dove ti deve portare”. Arriva la macchina, l’autista è etiope, giovane a Washington DC da dieci anni. Dove siamo diretti? Sempre là, sulla Sesta Strada all’incrocio con C Street Southwest. Arriviamo al checkpoint, lo stesso dove ero stata tre ore prima. I soldati ci fermano, chiedono i documenti, i miei e quelli dell’autista e… miracolo, ci lasciano passare. Arrivo di fronte all’hotel, è tutto esaurito, è pieno di soldati della Guardia Nazionale. E’ quasi mezzanotte, ho vinto l’ultimo biglietto della lotteria notturna del checkpoint Washington DC.