Sono 157 i miliardi assegnati a oneri assistenziali nel 2022, con una spesa cresciuta del 126% nell’arco di un decennio. Tutto sommato stabile invece quella per prestazioni previdenziali, che vale il 12,97% del PIL: un valore in linea con la media europea ma distante da quello comunicato a Bruxelles. Generando confusione ed esponendo il Paese al rischio di una dura riforma
Mara Guarino
Nel 2022 l’Italia ha complessivamente destinato a pensioni, sanità e assistenza 559,513 miliardi di euro, con un incremento del 6,2% rispetto all’anno precedente (32,656 miliardi): la spesa per prestazione sociali ha assorbito oltre la metà di quella pubblica totale, il 51,65%. Rispetto al 2012, e dunque nell’arco di un decennio, la spesa per welfare è aumentata di ben 127,5 miliardi strutturali (+29,4%); aumento ascrivibile soprattutto agli oneri assistenziali a carico della fiscalità generale, cresciuti del 126,3% a fronte dei “soli” 37 miliardi della spesa previdenziale (+17%) e del 18% del nostro Prodotto Interno Lordo.
È quindi un quadro che richiama nuovamente l’attenzione sulla necessità di separare previdenza e assistenza, contenendo maggiormente quest’ultima, quello tracciato dall’ultimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano curato dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, presentato ieri nella prestigiosa cornice offerta dalla Camera dei Deputati. Una sintesi degli andamenti di spesa pensionistica, entrate contributive e saldi nelle differenti gestioni pubbliche e privatizzate, cui si aggiunge un’importante opera di riclassificazione utile sia a tracciare un bilancio del 2022, ultimo anno di rilevazione disponibile, sia a effettuare previsioni sulla sostenibilità di medio e lungo periodo del welfare italiano.
L’andamento della previdenza obbligatoria
Dopo il crollo dovuto a COVID-19 e misure di lockdown, crescono nuovamente e anche per il 2022 le entrate contributive, che salgono dell’8% rispetto al 2021 toccando quota 224,94 miliardi di euro, valore ampiamente superiore a quello pre-pandemico. Diminuisce di riflesso anche il saldo (negativo) tra entrate e uscite, pari a circa 22,64 miliardi: sul deficit del sistema pensionistico, che scende di quasi 7 miliardi rispetto ai 30 dello scorso anno, continua a pesare soprattutto il disavanzo della gestione dei dipendenti pubblici, che evidenzia da sola un passivo di oltre 39 miliardi (erano 33 prima della pandemia). Quattro, invece, le gestioni obbligatorie INPS con saldi positivi: i lavoratori dipendenti che – al netto delle gestioni speciali poi confluite nel FPLD – presentano un attivo di 17.715 milioni di euro contro gli 11,5 miliardi del 2021; i commercianti, che raddoppiano il loro saldo positivo (da 654 a 1.317 milioni di euro); i lavoratori dello spettacolo ex ENPALS, con 373 milioni (288 nel 2021), e la Gestione Separata dei lavoratori parasubordinati. Con un saldo che passa da 7.700 a 8.477 milioni, quest’ultima resta indubbiamente favorita dall’istituzione piuttosto recente, avvenuta nel 1996, e dunque dal numero ancora ridotto di pensionati, spesso peraltro percettori di assegni dall’importo contenuto. Buono anche il saldo previdenziale delle Casse privatizzate dei liberi professionisti, che sale a 4,259 miliardi di euro (+15,35% sul 2021): nel dettaglio, si tratta di 3,674 miliardi di euro per gli enti istituiti dal D.lgs. 509/1994 (+14,67%) e di 586 milioni per quelli di cui al D.lgs.103/1996.
Nel complesso, la spesa pensionistica di natura previdenziale comprensiva delle prestazioni IVS (invalidità, vecchiaia e superstiti) è stata nel 2022 pari a 247,588 miliardi, per un’incidenza sul PIL del 12,97%, in riduzione rispetto al 13,42% dello scorso anno. Al netto degli oneri assistenziali per maggiorazioni sociali, integrazioni al minimo e GIAS dei dipendenti pubblici (23,793 miliardi in totale), l’incidenza scende al 11,72%, dato più che in linea con la media Eurostat; la percentuale cala addirittura all’8,64% escludendo, oltre alle integrazioni al minimo e alla GIAS dei dipendenti pubblici, anche i circa 59 miliardi di imposte (IRPEF) che in molti Paesi dell’Unione o di area OCSE sono molto più basse, quando non del tutto assenti, sulle pensioni.«Un esercizio di calcolo – ha commentato il Professor Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, nel corso dell’evento di presentazione – tutt’altro che sterile se si considera che la corretta determinazione di questi dati è fondamentale per evitare che eccessive sovrastime convincano l’Europa a imporre tagli alle pensioni che, come evidenziano questi numeri, presentano invece una spesa tutto sommato sotto controllo».
Come sottolinea il Rapporto, stupiscono allora ancora di più i dati comunicati dalle nostre istituzioni in sede europea, con le prime stime Eurostat sul 2022 relative a pensioni di vecchiaia, anticipate e superstiti che ammontano per l’Italia al 16,7%, contro il 12,6% della media UE.
Le principali voci della spesa assistenziale italiana
Al 2022 risultano in pagamento 4.146.120 trattamenti di natura interamente assistenziale (invalidità civile, accompagnamento, assegni sociali, pensioni di guerra) per un costo totale annuo di 21,486 miliardi, malgrado il calo – fisiologico e costante – delle pensioni di guerra. Tenuto conto del fatto che uno stesso soggetto può essere destinatario di più prestazioni, sono di fatto 3.746.753 i beneficiari di trattamenti totalmente assistiti. Sono invece complessivamente 6.751.556 le prestazioni parzialmente assistite erogate al 2022, di cui 3.887.168 trattamenti tra integrazioni al trattamento minimo, maggiorazioni sociali e importi aggiuntivi: a beneficiarne, al netto di duplicazioni e non considerando la quattordicesima mensilità, un totale di 2.804.780 soggetti parzialmente assistiti.
I pensionati totalmente o parzialmente assistiti sono dunque 6.551.533, vale a dire il 40,61% del totale. Stima che oltretutto appare agli estensori del Rapporto, sicuramente in difetto, se si tiene conto di ulteriori prestazioni come la pensione di cittadinanza o, ancora, di quelle categorie di pensionati che, per età e anzianità contributiva, possono beneficiare anche separatamente di un’ulteriore prestazione assistenziale. «Non sembra rispecchiare le reali condizioni socio-economiche del Paese un dato che vede il nostro Istituto Nazionale di Previdenza Sociale erogare quasi in egual misura prestazioni previdenziali e trattamenti di natura assistenziale (il 46% del totale), il commento del Prof. Alberto Brambilla, coordinatore della ricerca, nel ricordare oltretutto che, a differenza delle pensioni finanziate dai contributi sociali, questi trattamenti gravano del tutto sulla fiscalità generale, senza neppure essere soggetti a tassazione».
In linea con le precedenti pubblicazioni, anche la nuova edizione del Rapporto suggerisce allora innanzitutto una corretta separazione tra previdenza e assistenza, e quindi una razionalizzazione della spesa assistenziale, che ormai da troppo tempo appesantisce le casse dello Stato, generando debito e sottraendo risorse a investimenti e sviluppo. «Al fondamentale tema dell’adeguata comunicazione alle istituzioni europee – ha commentato il Prof. Brambilla – si affianca quello di un Paese ormai assuefatto “all’assistenza di Stato”, anche per colpa delle continue promesse di una politica in perenne campagna elettorale e di misure a sostegno del reddito delle famiglie o volte a contrastare l’esclusione sociale finite impropriamente sotto il capitolo pensioni». Tanto più che, mentre le ultime riforme hanno colto l’obiettivo di stabilizzare la spesa pensionistica, «gli oneri assistenziali – rileva il Professore – continuano ad aumentare anche per l’inefficienza della macchina organizzativa, ancor oggi priva – nonostante il forte impulso alla loro creazione impresso dal governo Draghi – di una banca dati dell’assistenza e di un’anagrafe centralizzata di lavoratori attivi previste da norme del 2004 e del 2015. Eppure, solo un monitoraggio efficace tra i diversi enti erogatori (Stato, Regioni, Comuni, comunità), insieme a prove dei mezzi più consistenti di un ISEE facilmente raggirabile, può permettere di contenere i costi, aiutando con servizi e strumenti adeguati esclusivamente quanti hanno davvero bisogno».
I “cattivi” investimenti del welfare italiano
Complessivamente, il costo delle attività assistenziali a carico della fiscalità generale è ammontato nel 2022 a 157 miliardi, con un aumento di 12 miliardi rispetto ai 144,2 del 2021. Dal 2008, quando la spesa per assistenza ammontava a 73 miliardi, gli oneri a carico dello Stato sono più che raddoppiati, con un tasso di crescita annuo del 7,67%, addirittura di 3 volte superiore a quello della spesa per pensioni che sono però sorrette da contribuzione di scopo. «Il tutto mentre il debito pubblico si avvicina pericolosamente ai 3mila miliardi e, secondo i dati Istat – precisa Brambilla – il numero di persone in povertà continua a salire (quelle in povertà assoluta erano 2,113 milioni nel 2008 e 5,6 nel 2021): verrebbe da dire che non solo spendiamo molto ma che spendiamo anche male. Ed è forse questa spesa eccessiva, abbinata agli scarsi controlli, a incentivare sommerso e lavoro nero, generando il tasso di occupazione peggiore in Europa». Come ricorda il Rapporto, su 38 milioni di persone in età da lavoro l’Italia tocca il proprio record con poco più di 23,5 milioni di occupati.
Sono soprattutto due i rapporti che danno l’idea dell’incidenza del welfare sulla vita economica del Paese: quello sul PIL, che vale il 29,31% con l’esclusione della “casa”, e quello sulla spesa pubblica totale, pari al 51,65%. In buona sostanza, al welfare italiano è destinato poco meno di un terzo di quanto si produce e più della metà di quanto si spende in totale. Numeri che, trascinati da una quota assistenziale fuori controllo, contraddicono il sentire comune secondo cui l’Italia spenderebbe meno degli altri Paesi dell’UE per il proprio sistema di protezione sociale: anzi, il rapporto tra spesa sociale e PIL ci colloca al terzo posto delle classifiche Eurostat, quasi appaiati al secondo posto dell’Austria e superati dalla sola Francia. «Giusto per avere un termine di raffronto – commenta Brambilla – a scuola e università sono destinati circa 70 miliardi contro i circa 80 per gli interessi sul debito pubblico, il che dovrebbe far riflettere tanto la politica sempre pronta a elargire nuovi sussidi sia i cittadini, pronti a ogni tornata elettorale a “premiare” le promesse più generose, senza domandarsi chi dovrà poi sostenerle finanziariamente o a quali altre fondamentali funzioni dello Stato saranno sottratte».
Nel complesso, se per INPS e Inail si può infatti parlare di “equilibrio”, vale a dire di un sistema pensionistico e assicurativo in grado di autosostenersi con i contributi versati da lavoratori e imprese, lo stesso non può dirsi per assistenza, sanità (intorno ai 131 miliardi l’importo della spesa) e welfare degli enti locali (circa 11 miliardi) che, in assenza di contributi di scopo, devono appunto essere finanziati attingendo alla fiscalità generale. Per dare un ordine di grandezza, a partire dai dati MEF sulle dichiarazioni dei redditi ai fini IRPEF riferite al 2021, il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali stima che per finanziare sanità e assistenza, nel 2022, siano occorse pressoché tutte le imposte dirette IRPEF, addizionali, IRES, IRAP e ISOST e anche circa 40 miliardi di imposte indirette. Di conseguenza, per sostenere il resto della spesa pubblica non rimangono che le residue imposte indirette, le altre entrate e soprattutto la strada del “debito”, ponendo peraltro anche un tema di equità e sostenibilità del sistema. Il 77,84% degli italiani dichiara redditi da zero fino a 29mila euro, corrispondendo solo il 25,74% di tutta l’IRPEF, un’imposta neppure sufficiente a coprire la spesa per le principali voci di spesa di welfare, il cui finanziamento grava quindi sulle spalle degli altri versanti e, in particolare, di quei 5 milioni di contribuenti che dichiarano redditi oltre i 35mila euro.
Prospettive di breve termine e “soluzioni” per il futuro
Ancora una volta, il documento identifica quindi nell’assistenza il vero tallone d’Achille della spesa per protezione sociale italiana, rispetto alla quale viene dunque invocato un cambio di registro. Tra le possibili soluzioni individuate dal Rapporto, oltre alla messa in moto della banca dati dell’assistenza, anche una profonda revisione dell’ISEE e controlli fiscali e contributivi più serrati, ad esempio – come accade in altri Paesi – nei confronti di quei cittadini che superati i 35 anni di età non abbiano ancora presentato una dichiarazione dei redditi. «Alla stretta sull’assistenzialismo – prosegue il Professore – vanno poi affiancati concreti interventi sul nostro mercato del lavoro, rafforzando formazione, politiche attive e strumenti di incontro tra domanda e offerta; tutte misure in prospettiva più efficaci delle costose e inefficaci decontribuzioni che, come insegna la lunga storia italiana, non producono risultati, minano i conti pubblici e favoriscono al più incrementi dell’occupazione che si spengono alla fine delle agevolazioni».
Quanto alla previdenza in senso stretto, il quadro appare più stabile anche in prospettiva, a patto che le pensioni smettano di essere terreno di conquista di facili consensi e che l’Italia prenda consapevolezza di essere (al momento senza una bussola che indichi la giusta direzione) dinanzi alla più grande transizione demografica di tutti i tempi. Ecco perché l’auspicio della pubblicazione è che le varie forze politiche possano trovare un “patto di non belligeranza” a favore di una revisione del sistema equa, duratura e che tenga conto di un’aspettativa di vita sempre più elevata. «Negli ultimi anni – ha chiosato il Professore – la discussione politica si è concentrata quasi esclusivamente sulle formule per accedere con anticipo al pensionamento, favorendo ora questa ora l’altra categoria, senza un disegno preciso alle spalle. Con il risultato di introdurre sì flessibilità, ma anche di vanificare gran parte di quei risparmi che la riforma Monti-Fornero mirava a ottenere e di rendere più difficoltoso il raggiungimento (e superamento) di quel rapporto di 1,5 tra pensionati e lavoratori attivi che certificherebbe la tenuta del sistema. È allora giunto il momento di darsi regole certe per almeno i prossimi 10 anni, 1) limitando le numerose forme di anticipazione a pochi ma efficaci strumenti, come fondi esubero, isopensione e contratti di solidarietà (riportando però l’anticipo a un massimo di 5 anni); 2) bloccando l’anzianità contributiva agli attuali 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 e 10 per le donne, con riduzioni per donne madri e precoci, così come previsto dalla riforma Dini, e superbonus per quanti scelgono di restare al lavoro fino ai 71 anni di età; e 3) soprattutto equiparando le (poco eque) regole di pensionamento dei cosiddetti contributivi puri a quelle degli altri lavoratori».
Mara Guarino, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali