di Umberto Ranieri
Lunga quasi un secolo la vita di Emanuele Macaluso nato il 21 marzo del 1924. La vita di un combattente politico della sinistra italiana, dotato di una vivida intelligenza, di una lucidità analitica, di una ruvida ma grande umanità. Emanuele è stato un uomo libero, con una capacità di totale disinteresse personale. La soglia avanzata della vita raggiunta non gli ha impedito di continuare a riflettere e scrivere sulla vicenda politica italiana, a battersi per ricostruire una sinistra che lui voleva si ispirasse a idealità socialiste.
Aderì nel 1941 ad un Pci in piena clandestinità. Fu sindacalista in Sicilia negli anni degli assalti della mafia di Salvatore Giuliano alle organizzazioni del movimento contadino. Rischiò la vita nel 1944 quando andò a Villalba uno dei feudi della mafia, insieme a Girolamo Li Causi, capo storico dei comunisti siciliani, a sfidare il boss Calogero Vizzini. Dirigente del Pci, nel tempo in cui quel partito fu una straordinaria comunità umana, collaborò con Togliatti, Longo, Berlinguer. Lealmente ma senza conformismi. Dicendo sempre con limpidezza il suo pensiero sulle vicende politiche e sulle scelte del Pci. Comuni pensieri politici e una amicizia fraterna lo legarono a Giorgio Napolitano e a Gerardo Chiaromonte.
Emanuele avvertì prima del fatidico 1989 che l’originalità politica e culturale del Pci non era più sufficiente a dare capacità espansiva alla sua politica. Sostenne la svolta promossa da Achille Occhetto che avrebbe dato vita al Pds. Con Giorgio Napolitano guidò la battaglia dei miglioristi. Una battaglia difficile, forte era l’adesione dei militanti, degli attivisti, delle sezioni del Pci al sogno di un’altra società. Abdicare al sogno, si sosteneva, avrebbe fatto fare al Pci la fine di un qualsiasi partito socialdemocratico… In realtà, osservava Emanuele, a far svanire quel sogno erano state dure repliche della storia. Al turbamento dei militanti, Emanuele replicava, nel corso di infuocate discussioni, che occorreva battersi perché il nuovo partito nascesse sulla base di un ancoraggio ideale e politico alla esperienza del socialismo democratico.
Nei suoi libri, lo sforzo di ricerca critica sulla storia del Pci era schietto e autentico ma l’analisi del passato non poteva essere sostituita con campagne di radicale svalutazione della esperienza storica di quel partito in cui aveva militato per 51 anni. La rivista che Emanuele fondò negli anni Novanta e che diresse fine al termine della sua lunga vita “Le nuove ragioni del socialismo” si proponeva di contribuire al recupero del nucleo vitale della tradizione socialista italiana. Nel dialogo con Claudio Petruccioli pubblicato da Marsilio nel 2021, con parole intense ed amare, quasi traendo un bilancio della sua vita di militante, Emanuele parlerà della incapacità della sinistra italiana a trovare la strada della unità. Socialisti e comunisti attraverseranno gli anni Ottanta duellando tra di loro. Alla fine, la storia del Psi si concluderà traumaticamente, il Pci sarà incapace di anticipare la svolta cui giungerà solo nel 1989. Il gruppo dirigente del Pci, scriverà Emanuele, non comprese che la sinistra avrebbe potuto candidarsi al governo del Paese in alternativa alla Dc solo in presenza di un partito socialista capace di una propria autonoma caratterizzazione.
Emanuele non si sottraeva alla fatica che comportava recarsi ovunque fosse utile la sua testimonianza di storico dirigente e militante del Pci. Della tradizione della sinistra italiana, sosteneva Emanuele, si deve tenere conto, ma per rilanciare il riformismo socialista come metodo di governo in un mondo che appare sempre meno governabile, occorreva fare i conti con trasformazioni e mutamenti intervenuti nella economia, nella cultura, nel costume. Terminava i suoi interventi con l’invito alla riflessione storica, agli studi, alle analisi sociali. Parole in cui sembrava riecheggiasse il “cercate ancora” con cui concluse il suo ultimo scritto Claudio Napoleoni, uno tra i più acuti e originali economisti italiani, impegnato fino all’ultimo in una serrata dialettica con il PCI.
Emanuele era un formidabile polemista. Dirigere l’Unità in anni di particolare acutezza della battaglia politica, esaltò questa sua dote. L’acronimo em.ma, con cui firmava i suoi corsivi, divenne la prima lettura della giornata. Sostenne il sorgere del Riformista quotidiano fondato e diretto da Antonio Polito, ne assunse la direzione nel 2011.
Contro il giustizialismo che ha condizionato la vicenda politica e civile dell’Italia nel corso degli ultimi decenni, Emanuele condusse una battaglia senza quartiere. Levò la sua voce negli anni di “tangentopoli” per opporsi al clima giustizialista in base al quale un semplice avviso di garanzia si trasformava in un’inappellabile condanna davanti al tribunale dell’opinione pubblica. Non temette di denunciare indagini condotte con scarso rispetto per le garanzie degli imputati. Criticò l’abuso della carcerazione preventiva per ottenere o estorcere confessioni e lo sconfinamento della giurisdizione penale. Considerò un drammatico errore l’acritico sostegno del Pds all’azione giudiziaria nella convinzione che potesse favorire quel rinnovamento che non si era capaci di produrre per via politica. Comprese l’importanza della strategia di lotta alla criminalità organizzata sostenuta da Giovanni Falcone e lo difese quando fu sottoposto a un infame linciaggio diretto a stroncarne con vili e spregevoli accuse la reputazione e il decoro professionale. Battaglie combattute insieme a Gerardo Chiaromonte, amico e compagno di una vita. Ad un secolo dalla sua nascita la vita di Emanuele continua a parlare agli italiani che aspirano ad una politica che riguadagni umanità, fiducia e dignità.