La guerra manda in crisi la moneta russa? Certo, ma il problema profondo è un’economia che non si è mai modernizzata
di Stefano Cingolani
La somiglianza con il default del ’98-’99 è notevole, anche allora c’era stata un’invasione (della Cecenia) e si erano ridotte le esportazioni Il rublo circola da 700 anni, sostengono storici russi, ma non è proprio così. Fu Pietro il Grande a coniare la prima moneta ufficiale Ha colpito l’ultima uscita di Alexei Navalny che incolpa Eltsin per quel che sta accadendo ora: il dissidente non ha tutti i torti Scappatoie illegali, triangolazioni con paesi asiatici e la Turchia: tutto ciò non basta a rimpiazzare la moneta forte che arrivava dall’occidente
Fu il crollo del rublo, non la vodka, a far cadere Boris Eltsin un quarto di secolo fa portando al potere Vladimir Putin; adesso in molti pensano (chi lo spera, chi lo teme), che sia ancora la valuta, ridotta a carta straccia, e non la sconfitta militare sul campo in Ucraina, a preparare la resa di Zar Vlad. La somiglianza con il default del 1998-1999 è notevole, anche allora c’era stata l’invasione di un paese confinante che si era dichiarato indipendente, la Cecenia, e si preparava una seconda guerra caucasica; anche allora si erano ridotte le esportazioni di materie prime, uniche fonti per procurarsi dollari e valute forti. La differenza di fondo è che a quel tempo l’odiato occidente aiutò la Russia a sopravvivere, al contrario di quel che racconta la disinformazia: per evitare il completo collasso nel 1998 vennero stanziati 22 miliardi e rotti di dollari, una parte dei quali, si stima poco meno della metà, non arrivò mai nelle casse della banca centrale, ma finì chissà dove: nelle tasche della mafia, nei conti segreti del Kgb, in quelli esteri degli oligarchi. E’ un grande thriller finanziario ancora aperto, le investigazioni del Fondo monetario internazionale non sono riuscite a trovare i colpevoli. Prima di correre dietro a quella memoria che Putin sta manipolando in attesa di cancellarla, gettiamo un sguardo a quel che accade in questi giorni.
Lunedì scorso, 14 agosto, la Banca di Russia convoca una riunione di emergenza perché il rublo sta precipitando sui mercati e sfonda quota 100 in rapporto al dollaro. La mattina del nostro Ferragosto la governatrice Elvira Nabiullina – celebrata un anno fa per aver accumulato ingenti riserve (circa 630 miliardi di dollari) salvando il salvabile dopo l’esclusione di Mosca da Swift, il principale circuito di pagamenti internazionali – alza i tassi d’interesse al 12 per cento. Ma la cassetta degli attrezzi è ormai ridotta al lumicino. La Russia è destinata a finire come l’argentina? O forse peggio ancora, con il secondo arsenale nucleare in mano ai signori della guerra. Dopo il colpo di mano di Evgenij Prigozhin e della sua Wagner, è tutto un invito alla prudenza, tutto un chiedersi dove va questo immenso paese ignoto ai più, questo enigma della storia. Leggere per credere Foreign Affairs e le analisi del Council of Foreign Relations, il più internazionalista tra i pensatoi americani. Ancora una volta la moneta si rivela “a un tempo barometro di movimenti profondi e causa di non meno formidabili conversioni delle masse”, come scriveva nel 1940 lo storico francese Marc Bloch prima di essere fucilato dai nazisti.
Che cos’è il rublo? Intanto bisogna dire che fino al XVII secolo non era nulla, un frammento, una scheggia, un ritaglio d’argento (rubit significa in russo tagliare). Circola da 700 anni, sostengono storici russi, ma non è esattamente così. Nel XVII secolo esistevano il rublo d’argento e quello di rame, il primo per il commercio con l’occidente, l’altro per gli scambi interni e si deprezzava di continuo, tanto da provocare una rivolta nel 1662. Fu Pietro il Grande a coniare nel 1725 la prima moneta ufficiale divisa in cento copechi. Ma il valore cambiò enormemente sotto zar e zarine: Anna, Caterina che introdusse la moneta di carta, Alessandro, Nicola I nel 1825, altre variazioni importanti arrivano fino al 1900. La fine della servitù della gleba nel 1861 innescò una gran circolazione di rubli. Doveva essere l’occasione di una grande riforma agraria che avrebbe portato alla luce nuove classi sociali di piccoli proprietari. Il governo introdusse per il riscatto delle terre un sistema di pagamento basato su titoli emessi ad hoc, certificati con interessi del 5 per cento per riscuotere i quali il proprietario doveva presentarli al Tesoro. In alternativa poteva annullarli e scambiarli con banconote. La burocrazia da una parte e l’ignoranza finanziaria dall’altra fecero sì che la maggior parte scelse di monetizzare provocando un’inflazione che portò alla rovina gli onesti e fece arricchire i disonesti. Lo racconta Anton Cechov nel “Giardino dei ciliegi” e mostra impressionanti somiglianze con la privatizzazione post sovietica attraverso i voucher, la quale, nell’illusione di distribuire al popolo il capitale dello stato, fece nascere una classe sociale, quella degli oligarchi, sempre più infeudata al Cremlino.
Di marchi tedeschi, non di rubli, marchi in oro tra i 30 e i 40 milioni (le stime degli storici non sono precise), ebbe bisogno Lenin per far cadere il governo liberal-democratico di Aleksandr Kerenskij il quale, deposto lo zar nel febbraio 1917 e preso in mano il governo a luglio, continuava la guerra al fianco delle potenze occidentali anche se con pessimi risultati e rifiutava ogni pace separata. A marzo il capo dei bolscevichi era arrivato da Zurigo in un treno blindato attraverso la Germania, gettando scompiglio a sinistra tra i socialisti rivoluzionari considerati nemici giurati. Conquistato il potere a novembre, firmò nel marzo 1918 a Brest Litovsk un trattato capestro (c’era anche l’indipendenza dell’ucraina) che diede fiato a cinque anni di guerra civile. L’hanno raccontata i migliori scrittori in lingua russa come Aleksandr Solzenicyn in “Lenin a Zurigo”, il critico Viktor Sklovskij ufficiale carrista con i socialisti rivoluzionari (“Viaggio sentimentale”), l’ucraino Michail Bulgakov (“La guardia bianca”) e sulla sponda opposta un altro ucraino, Isaak Babel (“L’armata a cavallo”), per non dimenticare Boris Pasternak ne “Il dottor Zivago”.
La valuta socialista è rimasta isolata per sessant’anni, non per questo s’è ben conservata. Il rublo zarista introdotto nel 1897 era uguale a 0,774235 grammi di oro, il rublo sovietico del 1961 era formalmente uguale a 0,987412 grammi, tuttavia lo scambio con l’oro non fu mai a disposizione del pubblico. Dopo una qualche esitazione Stalin tenne l’urss anche fuori dal Fondo monetario internazionale, negli anni 80 con la perestrojka di Michail Gorbaciov si pensò di introdurre una graduale convertibilità estera della valuta. “Evidentemente è venuto il momento in cui i paesi socialisti non possono più permettersi di non partecipare al processo di formazione del sistema monetario internazionale che essi pur utilizzano”, scrisse l’economista Dmitri Smyslov sul Federalista, la rivista del movimento federalista europeo. Era il 1989. Troppo tardi per la valuta così come per un regime irriformabile.
Il rublo circolava all’estero soprattutto sotto forma di aiuti ai “partiti fratelli”. Cominciò con Lenin nel 1919 e finì nel 1990, subito dopo lo scioglimento dell’urss. Il denaro del Fondo di assistenza finiva nelle tasche di settanta partiti, comunisti, ma anche socialisti, come quello di Pietro Nenni, o a sindacati (per esempio la Cgt francese e la Cgil). Quando sono stati aperti gli archivi del Cremlino, gli storici hanno fatto il loro mestiere a cominciare da Elena Aga Rossi e Victor Zaslavskij (“Togliatti e Stalin. Il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca”, del 1997). Due anni dopo Valerio Riva ha pubblicato 240 documenti inediti (“Oro da Mosca. I finanziamenti sovietici al Pci”, Mondadori 1999). Poi i ricordi e le confessioni di Gianni Cervetti, il dirigente comunista che ogni anno si recava da Boris Ponomariov, plenipotenziario per l’europa occidentale. Ai compagni italiani andava un terzo del budget destinato a tutti i partiti comunisti mondiali. Ma l’urss non dava solo rubli. Centinaia di imprese economiche intestate a uomini fedeli ricavavano non poco dal commercio e dal turismo con la Russia che forniva carta, due tonnellate e mezzo di pelli pregiate e comprava 20 mila tonnellate di agrumi dalla Sicilia per pagare i debiti de l’unità. E’ stato Enrico Berlinguer, secondo Cervetti (intervistato da Salvatore Merlo per il Foglio) e un esponente di spicco come Aldo Tortorella (intervistato da Walter Veltroni per l’unità). Adesso sono spuntati anche i rubli alla Lega che avrebbe chiesto alla Russia 65 milioni, come tangente per l’acquisto da parte dell’eni di 3 milioni di tonnellate a prezzo speciale. In cambio, la Lega avrebbe appoggiato la politica antieuropea di Mosca. Tutto ipotetico, probabile, approssimativo, fantastico, molte parole, sino ad ora nessun fatto se non la firma dell’accordo con il partito di Putin e il negazionismo filo Cremlino. L’inchiesta è archiviata e comunque Matteo Salvini non sapeva.
Ha colpito l’ultima uscita di Alexei Navalny che incolpa Eltsin per quel che sta accadendo ora: le mancate riforme, il fallimento dell’illusione occidentalista, l’ultima di una lunga serie. Ma l’oppositore condannato ad altri 19 anni di carcere non ha tutti i torti, gli anni 90 sono stati disastrosi, un incredibile cocktail di incoscienza, insipienza, avidità, ha portato il paese al collasso un decennio dopo la caduta del muro di Berlino. E’ allora che tutto comincia: la Russia nostalgica e revanscista, la propaganda anti-occidentale, l’èra Putin insieme seme e frutto della svolta autocratica. Il 17 agosto 1998 il Cremlino decide di svalutare il rublo e non pagare il suo debito. Il costo della guerra in Cecenia è la pagliuzza che stronca la schiena dell’orso. Nel 1995 si stimava che fosse costata 30 milioni di dollari al giorno, i conti finali si avvicinano ai 6 miliardi, l’1,5 per cento di un prodotto lordo che annaspa. Due anni dopo arriva la crisi delle valute asiatiche che provoca una recessione, calano le esportazioni di petrolio, gas, materie prime, la fonte principale della ricchezza in un paese che non è in grado di industrializzarsi con la manifattura e una classe di veri imprenditori. Nel marzo del ’98, quando già la tempesta era scoppiata, Eltsin licenzia il primo ministro Viktor Chernomyrdin e nomina al suo posto il giovane ministro dell’energia Sergei Kiriyenko (35 anni) il quale, nel tentativo di sostenere la valuta e arginare la fuga di capitali, aumenta i tassi di interesse del 150 per cento. Scoppia una serie di agitazioni sociali: i minatori scendono in sciopero per i salari non pagati e bloccano la Transiberiana (il governo aveva un debito di 12,5 miliardi nei confronti dei lavoratori pubblici). Eltsin è con l’acqua alla gola, ma nessuno vuole che la situazione precipiti. Nel tentativo di mantenere la moneta nella fascia di oscillazione tra i 5,3 e i 7,1 rubli per dollaro, la banca centrale perde in un anno riserve per 27 miliardi di dollari. Eltsin è nel pallone, caccia Kiriylenko, cerca di recuperare Chernomyrdin, ma viene bloccato da una Duma malmostosa dove ex comunisti e neo nazionalisti imperversano. Alla fine la spunta Evgheni Primakov. Il 13 luglio viene approvato il pacchetto finanziario da 22,6 miliardi di dollari del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale per sostenere le riforme e stabilizzare il mercato scambiando un volume enorme dei buoni a breve termine GKO a rapida scadenza in Eurobond a lungo termine. E qui comincia il giallo.
Il Wall Street Journal rivela un complesso giro di denaro che coinvolge una banca americana, la New York Bank Accounts, e la sua filiale londinese. Soldi che portano ai nuovi arricchiti, ai nuovi signori del petrolio, alla Yukos e alla mafia russa. Secondo analisi americane e della Accademia delle scienze russa, nel decennio 90 sono fuggiti capitali per 350 miliardi di dollari, molti dei quali riciclati non solo nei paradisi fiscali, ma nella City e a Wall Street. Dentro questa enorme spoliazione rientrano anche i quattrini del Fondo monetario che, è sempre utile ricordarlo, fanno capo ai paesi membri tra i quali l’italia non è certo l’ultimo. Secondo Pricewaterhouse la stessa banca centrale russa avrebbe spostato miliardi di dollari nelle isole Jersey. L’indagine del Fmi e delle autorità americane ha stimato in una decina di miliardi il malloppo riciclato in un modo o nell’altro. Il crac finanziario e il caos economico-politico formano lo scenario dal quale emerge Vladimir Putin che Eltsin fa entrare nella plancia di comando e poi mette al timone di una Russia ormai a pezzi.
Il conflitto in Ucraina, le sanzioni, la militarizzazione dell’economia sono le cause immediate di questa ultima crisi del rublo. Ma la ragione di fondo si trova nella mancata trasformazione della Russia in un paese con un’economia moderna e matura. Le sue sorti economiche e politiche dipendono dall’export di materie prime. Adesso ne dipende anche la guerra. L’industria bellica è probabilmente il settore più trainante, a scapito di altri comparti del sistema economico, ma richiede ingenti investimenti. La svalutazione del rublo in teoria favorisce le esportazioni che, però, sono bloccate dalle sanzioni. La valuta è crollata nel febbraio 2022, subito dopo l’invasione, a quota 120 contro il dollaro. E’ poi risalita in giugno quando i prezzi di petrolio e risorse naturali sono aumentati e s’è fatto rigido il controllo sui capitali da parte delle autorità di Mosca. Nel corso di un anno e mezzo di conflitto, il rublo ha oscillato perdendo in media un quarto del suo valore rispetto al dollaro. Le importazioni hanno superato le esportazioni a causa delle sanzioni e il deficit della bilancia estera provoca un deprezzamento della valuta. L’unione europea ha tagliato il cordone ombelicale dei gasdotti e ridotto drasticamente l’acquisto di petrolio. Stati Uniti, paesi del Golfo Persico e del Nord Africa sono ormai i fornitori principali di metano. Alla fine del 2022, il G7 ha introdotto il price cap, un tetto alle entrate russe da esportazioni di petrolio, fissando il costo del barile al di sotto dei 60 dollari. Le scappatoie illegali, le triangolazioni con i paesi dell’asia centrale e la Turchia, il sostegno della Cina e in parte dell’india, tutto ciò non è in grado di rimpiazzare il flusso di moneta forte che arrivava dall’occidente. Il consigliere economico Maxim Oreshkin ha dichiarato in un editoriale per l’agenzia di stampa Tass che il Cremlino vuole un rublo forte e si aspetta una normalizzazione a breve. Putin intende creare un cordone sanitario per tenere i capitali in patria. Tutti pensano di manipolare la moneta senza capire che è uno specchio della realtà e non si può attraversare senza che cada in pezzi.
Fonte: Il Foglio