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Un rifugio per tempi difficili

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“Che cos’è un rifugiato? Che cos’è un essere umano? Ho cercato di creare opere che rispondessero a queste domande e scuotessero il cuore degli spettatori, anche se fossero di razze o nazionalità diverse. Vorrei che la mia opera potesse parlare anche agli alieni utilizzando un linguaggio comune, il linguaggio dell’arte”.

Ecco, tra le tante definizioni d’arte, qualcosa capace di parlare agli alieni mancava. E sì che, stando a obnubilati graffiti e poco note tele rinascimentali, dischi volanti e affini non sono digiuni d’arte terrestre. Ma restiamo sul sodo, a Keisuke Matsuoka, al suo proposito di giungere “alla scoperta dei fili che legano gli esseri umani tutti”, per dirla ancora con le parole dell’artista nipponico che sbarca a Roma per la prima personale capitolina alla galleria Faber, curata da Cristian Porretta. Al patron della galleria, diciamolo subito, va il merito d’averci creduto.

(Opera di Keisuke Matsuoka. Foto: Manuela Giusto/courtesy Galleria Faber)

Nell’artista di Sendai, classe 1980, nel valore del suo messaggio, ideando la trasvolata oceanica per portare le sue opere, minute o monumentali, dal paese del Sol levante al Belpaese. Superando tutto, pure gli scogli della pandemia che ha ritardato il progetto Refugees partorito due anni fa.

Ed eccola, la bipersonale che fino al 30 luglio farà conoscere ai romani Keimat. Accanto ai lavori in via dei Banchi Vecchi, alle opere materiche pensate specificamente per gli spazi della galleria, a poca distanza da questa, nella sede dell’Opera pia dei Bresciani, sull’omonima via, è possibile visitare un’altra panoplia d’opere. Lavori meno recenti che forniscono una panoramica della produzione di Matsuoka. Fili che legano gli esseri umani tutti. Fili visibili e, più ancora, invisibili. Di questo sono fatte molte opere in mostra, oltre che di cera e vetro che pare pietra, di legno, carta e d’altro. Filami che trasmutano la forma dell’essere in materia d’arte, ne fanno percorso ideale e umano, prim’ancora che artistico.

(Opera di Keisuke Matsuoka. Foto: Manuela Giusto/courtesy Galleria Faber)

“La figura del rifugiato diventa presupposto e paradigma per un’analisi sull’intero genere umano – afferma il gallerista-curatore – tutto questo Matsuoka lo analizza e ritrasmette con la propria arte, ce lo porge in forma di scultura, prende le materie, modella, trasforma, distrugge e ricostruisce. Come fa la natura, come succede a ogni uomo con la propria identità, esattamente come sono costretti a fare i rifugiati nella lotta per la sopravvivenza”.

Keimat, come ci piace chiamarlo, non è pratico di rifugiati. Non è paese di migranza, il suo. Di sopravvivenza, sì. Dalla prefettura di Myagi, devastata dallo tsunami del 2011, dall’arcipelago d’isolotti boschivi, di spuntoni rocciosi costellati di pini che si ergono dal mare smeraldo, forse tra i panorami più noti del Giappone, divenuti teatro d’una distruzione immane, lancia un messaggio di forza e speranza, rinascita soprattutto. Un invito a non arrendersi mai. A darsi coraggio o ganbaru, com’era scritto sui cartelli fioriti ovunque, dopo il disastro.

(Opera di Keisuke Matsuoka. Foto: Manuela Giusto/courtesy Galleria Faber)

Qualesia il materiale impiegato, tradizionale come il legno o innovativo come la polvere di ferro e titanio, quel che traspare è il senso della rinascita. Come la litoranea dopo il maremoto. Anche quando compie gesti dirompenti, all’apparenza violenti, come quello di spezzare-spazzare la testa o il corpo del rifugiato, ricomposti a parete in galleria, il suo è un segno di speranza. C’invita ad attraversare i tempi difficili in cui ci è dato vivere coraggiosamente, appunto.

(Opera di Keisuke Matsuoka. Foto: Manuela Giusto/courtesy Galleria Faber)

È questo, forse, il senso più profondo dell’opera di Keimat. Questa mescola di forza e delicatezza, soavità e determinazione, tipica della sua terra, della sua gente, che s’impasta nei corpi dei rifugiati in mostra. Due eventi accompagnano il visitatore nel percorso espositivo capitolino. Il primo, al Villaggio globale presso l’ex mattatoio, vedrà un’installazione partecipata in collaborazione con l’associazione Kalma, il 29 maggio.

Infine una conferenza al Mused, Museo storico della didattica “Mauro Laeng” dell’università Roma III, in piazza della Repubblica 10, racconterà con vari ospiti il complesso dell’iniziativa Refugees, nella prima metà di giugno. Buon ultimo, oltre al bel catalogo, una serie di opere su carta, numerate dall’artista, permetteranno al pubblico di finanziare il progetto. Fino al 30 luglio, Galleria Faber, via dei Banchi Vecchi 31; Galleria Romanino (Opera Pia dei Bresciani), via dei Bresciani 20, Roma. Info galleriadartefaber.com

Source: agi


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