AGI – I due maggiori partiti conservatori dell’Europa occidentale, i Tories britannici e la Cdu tedesca, non potrebbero arrivare all’appuntamento autunnale del congresso in condizioni più diverse. I primi hanno in Boris Johnson un leader, alla guida del governo, azzoppato dalla discussa gestione della pandemia, ma sono costretti a tenerselo. I secondi dovranno fare i conti una volta per tutte con un problema che l’efficiente risposta di Berlino all’uragano Covid ha reso ancora più penoso non poter rimandare: trovare qualcuno che sostituisca Angela Merkel.
Prima dell’esplosione del contagio la situazione sembrava ribaltata. La cancelliera era dipinta come una leader al tramonto il cui partito soffriva sempre più, nel voto dei Lander, la concorrenza dei Verdi e dell’ultradestra di Afd. Johnson, strappata la premiership e la gestione del negoziato sulla Brexit a Theresa May, vantava consensi invidiabili nei sondaggi di fronte a un Labour ridotto ai minimi termini dalla guida inconcludente di Jeremy Corbyn. Quei giorni sembrano ormai lontanissimi.
Le proverbiali gaffe di BoJo non sono più uno dei segreti del suo successo. La recente intervista televisiva nella quale il premier si confonde sulle norme del nuovo lockdown non ha irritato solo l’opposizione. E le trattative sul divorzio da Bruxelles continuano a girare a vuoto. Per quanto l’elezione di un nuovo leader non sia all’ordine del giorno, in vista della Conferenza che si tiene, solo in forma virtuale, dal 4 al 7 ottobre, si ricompatta la fronda che, lo scorso anno, aveva cercato senza successo di fare fronte comune per una candidatura alternativa. Da una parte rivali che Johnson, in fede al vecchio adagio, si è tenuto più vicino degli amici, come il ministro della Salute, Matt Hancock, e il capo di gabinetto, Michael Gove. Dall’altra ex dal dente avvelenatissimo come Sajid David, cancelliere dello scacchiere per appena 7 mesi, e Jeremy Hunt, che sperava nella riconferma agli Affari Esteri.
La questione della successione non è immediata ed è altrettanto difficile che nei prossimi giorni arrivi una sfida diretta alla leadership di Johnson. Il motivo è semplice: il coronavirus non è l’unica emergenza sul tavolo di Downing Street. La prospettiva che la Brexit si risolva in un divorzio caotico rimane concreta. Il commissario europeo ai Servizi Finanziari è una coriacea irlandese, Mairead McGuinness, che si è detta pronta a buttare fuori i colossi della City dal mercato comune se Londra continuerà a pretendere deroghe. La premier scozzese, Nicola Sturgeon, continua a insistere su un nuovo referendum per l’indipendenza. Nel caso di un ‘no deal’ disordinato, farebbe comodo a tutti che BoJo resti al suo posto per prendersi le responsabilità del caso.
Ai nastri di partenza sono pronti due cavalli di razza del governo. Il primo è il capo del Foreign Office, Dominic Raab, ultrà del Leave dal profilo fortemente conservatore, all’inizio al fianco di Johnson e poi sostenitore di Gove, che nella sfida per la premiership arrivò terzo dopo Hunt ed è decisamente troppo bruciato per riprovarci. Raab fu il volto dell’esecutivo nei giorni nei quali BoJo era ricoverato dopo il contagio da Covid e il Paese si era abituato a considerarlo come il possibile nuovo premier. E anche lui si era abituato all’idea, dal momento che – confessò lui stesso – si era preparato allo scenario della morte di Johnson.
Il secondo è una figura vicinissima al premier, il Cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak, giovane, dinamico e popolarissimo, dato nei mesi scorsi come possibile nuovo capo del governo da praticamente tutte le testate del Regno, tanto da vedersi costretto a dichiarare di non essere interessato al lavoro. Gli addetti ai lavori passeranno al setaccio i loro interventi per cogliere le direttrici di un programma che verrà. Pare invece difficile che possano risalire le quotazioni di Hancock che, pur avendo fatto di tutto negli ultimi tempi per smarcarsi dagli eccessi di ottimismo ostentati da Johnson, rimane pur sempre il volto di una risposta controversa alla pandemia.
Se a Londra si pensa già al dopo Johnson, a Berlino al dopo Merkel non vorrebbero pensarci neppure. Il Covid ha fatto rinascere la cancelliera. La figura pragmatica, ferma ma rassicurante, di “Mutti”, che – scienziata lei stessa – ha applicato con rigore i protocolli suggeriti dai suoi consulenti scientifici, era esattamente ciò di cui avevano bisogno i tedeschi. Il 4 dicembre 2020 è l’appuntamento, non più rimandabile, con il Congresso che eleggerà il nuovo capo della Cdu dopo le dimissioni, lo scorso febbraio, dell’ex delfina Annegret Kramp-Karrenabuer in seguito al pasticcio della Turingia, dove la Cdu si era ritrovata al fianco di Afd nel sostenere un candidato liberale della Fdp al vertice del piccolo Land dell’Est.
Finora sono in tre, tutti uomini, a essersi fatti avanti. Il volto più noto è quello del capogruppo del partito a Bundestag, il multimilionario Friedrich Merz, liberista, atlantista ed esponente della destra del partito, un curriculum che vanta posizioni di primo piano in colossi come Axa, Basf e BlackRock. Una sua elezione causerebbe un’autentica inversione a U: le posizioni centriste, e piuttosto liberali sui temi sociali, di Merkel verrebbero accantonate nell’ottica di strappare più voti possibili ad Afd; i rapporti con Mosca sarebbero molto meno stretti e quelli con Washington assai più cordiali. La scommessa di Merz è una Cdu in grado di governare da sola o al massimo con la Fdp. Sarebbe infatti molto difficile, con lui al timone, pensare un’altra Grande Coalizione con i Verdi o i Socialisti. L’uomo perfetto per proseguire con questa formula sarebbe invece Armin Laschet.
Fedelissimo della cancelliera, della quale difese strenuamente la decisione di aprire le frontiere ai richiedenti asilo siriani, il presidente del Land del Nord-Reno Vestfalia è un moderato dal carattere mite, cattolico devoto, sposato con la fidanzatina del liceo ma abbastanza liberale da scegliere come suo braccio destro l’attuale ministro della Salute Jens Spahn, unito in matrimonio con un altro uomo. Se Laschet diventasse cancelliere, i rapporti tra Usa e Germania potrebbero diventare ancora più tesi: l’ex europarlamentare non è solo considerato filorusso ma anche troppo morbido nei confronti di Pechino.
Tra questi due estremi il giusto mezzo sembra il terzo contendente, l’ex ministro dell’Ambiente Norbert Rottgen, l’architetto della svolta verde di Merkel che ha portato alla chiusura delle centrali nucleari e all’abbandono progressivo del carbone. Con lui alla guida della Cdu, un’alleanza organica con i Verdi diventerebbe un esito scontato. Europeista, grande sostenitore dell’asse con Parigi, Rottgen avrebbe il potenziale per far abbandonare a Berlino tutti gli indugi che finora hanno rallentato il processo di integrazione europea. In passato si espresse per l’elezione diretta del presidente della Commissione Europea e a favore di elezioni parlamentari simultanee in tutti i Paesi europei. È quindi ragionevole supporre che Emmanuel Macron tifi per lui. Considerato in grado di mettere d’accordo destra e sinistra del partito, sul suo passato pesa comunque l’ombra della pesantissima sconfitta incassata dalla sua candidatura, nel 2012, alla presidenza del Nord Reno-Vestfalia, una figuraccia che lo fece cadere in disgrazia presso Angela Merkel. Ma si parla di otto anni fa. In politica, al giorno d’oggi, tantissimo. Chiunque la spunti, sarà ad ogni modo difficile, nella sfida per la la cancelleria dopo le elezioni del 2021, superare la concorrenza di Markus Soder, presidente della Csu, ramo bavarese della Cdu, e presidente della Baviera, dato in testa a tutti i sondaggi.
Sul settore conservatore dello spettro politico europeo si registrano movimenti interessanti anche in Spagna, dove brilla la stella di Isabel Diaz Ayuso, presidentessa della Comunità Autonoma di Madrid e volto di primo piano dell’ala destra del Partito Popolare, quella che non disdegna flirt con i nazionalisti di Vox. Il Congresso è ancora lontano (si terrà nel 2023) ma l’agguerrita Ayuso ha già le carte in regola per sfidare l’attuale presidente Pablo Casado, grazie alla risoluta gestione dell’epidemia.
La settimana prima che, il 14 marzo scorso, il governo di Pedro Sanchez dichiarasse lo stato di emergenza, Ayuso aveva già chiuso case di riposo, scuole, locali notturni e palazzetti sportivi. Contagiata ella stessa e costretta alla quarantena, riuscì a garantire migliaia di nuovi posti letto per i pazienti Covid, anche utilizzando camere d’albergo. Una donna sicura di sè, convinta di avere la situazione sotto controllo al punto tale da resistere alle richieste di nuove restrizioni generalizzate giunte dalla Moncloa con l’avanzare della seconda ondata.
Quando Sanchez, pochi giorni fa, impose un nuovo lockdown parziale sulla capitale, il responsabile della Sanità della Comunità, Enrique Ruiz Escudero, annunciò che Madrid non avrebbe applicato queste norme “illegittime” e avrebbe fatto ricorso all’Avvocatura dello Stato. Alla fine Ayuso ha fatto marcia indietro sulla ribellione annunciata, pur confermando il ricorso e insistendo sulla necessità di misure differenziate per le diverse aree della regione, in modo tale da evitare un impatto economico eccessivo. Di fatto, è già campagna elettorale. In Spagna, si sa, di recente le elezioni sono molto frequenti e, appesa com’è ai voti degli indipendentisti baschi e catalani, la maggioranza di Sanchez non è proprio solidissima.
Vedi: Un leader per i tempi del Covid: Tories e Cdu a congresso
Fonte: estero agi