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TURISMO: La Regia di Caserta

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È uno dei più importanti Patrimoni dell’Umanità. La sua maestosità non ha paragoni e per alcuni supera di gran lunga Versailles. Il lettore avrà già compreso di cosa stiamo parlando: la Reggia di Caserta. L’opera architettonica partorita dal genio di Luigi Vanvitelli (Napoli 1700 – Caserta 1773) e costruita per dimostrare al mondo intero la grandezza culturale e politica della dinastia dei Borbone, nuovi regnanti di Napoli e Sicilia. C’è un motivo se proprio oggi ci troviamo a parlarne. Il 20 gennaio del 1752, ben 270 anni fa, Carlo di Borbone, sovrano dei regni di Napoli e Sicilia, pose la prima pietra di quella struttura architettonica che oggi richiama visitatori da tutto il mondo e che è al centro di diverse trasmissioni televisive di natura culturale. In occasione di questo 270° anniversario di quell’evento, vi sottoponiamo non solo la cronaca di quella giornata, trasmessa ai posteri dai personaggi autorevoli del tempo, ma anche l’analisi dei motivi profondi che spinsero quel giovane sovrano venuto dalla Spagna a dare il via ad un così importante cantiere.

In merito ai motivi che spinsero re Carlo (Madrid 1716 – Madrid 1788) ad ideare ed ordinare la costruzione del nuovo palazzo reale, la tradizione vuole che essi siano collegati a due fattori principali, oltre naturalmente al prestigio della dinastia borbonica di Napoli.

Il primo è quello che fa riferimento ad una necessità difensiva: un palazzo nell’entroterra campano sarebbe stato più al sicuro in caso di attacco dal mare rispetto alla residenza napoletana come riporta anche Gianni Oliva nel suo Un Regno che è stato grande: «Secondo la tradizione, Carlo avrebbe scelto Caserta perché posta a distanza di sicurezza sia dal mare che dal Vesuvio, lontana tanto dai pericoli di incursioni navali quanto da quelli delle eruzioni vulcaniche». Addirittura, secondo lo storico Pietro Colletta, la decisione di costruire una nuova residenza lontano da Napoli sarebbe dettata dall’umiliazione subita da Carlo durante la guerra di successione austriaca, quando la minaccia di una flotta inglese nel golfo di Napoli spinse il sovrano alla neutralità.

Il secondo motivo fu quello di sfidare la grandezza di Versailles ed al tempo stesso ispirarsi alla reggia di Luigi XIV per il palazzo reale di Caserta. Del resto, ancora tra i banchi di scuola si mettono in collegamento le due regge.

Entrambi i punti sono ormai assolutamente non considerabili dal punto di vista storico. È opportuno, quindi, esaminarli singolarmente. Le motivazioni che spinsero Carlo a costruire una nuova residenza devono essere individuate essenzialmente e principalmente nelle finalità politiche che il nuovo sovrano si prefiggeva di raggiungere. Carlo di Borbone voleva che il suo regno fosse competitivo con quelle che allora erano le monarchie simbolo di grandezza come la Spagna e la Francia. Del resto, la Reggia di Caserta – anche se è l’esempio più splendente – non fu l’unica opera di rinnovamento della ritrovata autonomia del regno. Carlo, infatti, prima di spostarsi sul trono di Spagna, darà avvio a diversi lavori. Basti pensare all’opera di recupero del palazzo reale di Napoli, ex residenza dei vicerè costruita nel 1600 su progetto di Domenico Fontana, ridotto in una condizione degradante all’arrivo di Carlo a Napoli. Le fabbriche di Portici e Capodimonte oppure il gioiello della cultura e della musica che è il teatro San Carlo, costruito tra la primavera e l’autunno del 1737. La costruzione di una residenza maestosa rappresentava, quindi, il simbolo più emblematico e affascinante della dinastia borbonica e del regno di Napoli.

La scelta del sito di Caserta, inoltre, era dettata dall’amore di Carlo per la caccia. L’attuale territorio di Caserta all’epoca era un trionfo della natura ed il re, prima dell’avvio della costruzione, mantenne sul posto stabilmente un padiglione per l’attività venatoria. In merito ai riferimenti architettonici a cui si ispirerebbe la Reggia di Caserta, come già abbiamo annunciato, bisogna fare dei chiarimenti. I principi che guidarono Carlo nel delineare la nuova residenza cozzano con quella che è la credenza comune che mette in collegamento il palazzo reale di Caserta con Versailles. In realtà Carlo più che all’esempio francese guardava e strizzava l’occhio ai palazzi spagnoli sia per il messaggio politico che per gli aspetti architettonici.

La concezione della Reggia di Caserta come centro di potere della monarchia, ma anche come luogo centrale della burocrazia del regno trova il riferimento più calzante nel palazzo dell’Escurial o nel palazzo reale di Madrid. D’altronde, come fatto evidenziare da alcuni studi, è impensabile che Carlo facesse riferimento ad un paese straniero e non molto amato come la Francia. Proprio il palazzo dell’Escurial, infatti, così come prevedeva il progetto iniziale della Reggia, presenta le torrette ai quattro angoli della struttura più una centrale. Un riferimento non proprio di poca importanza. Oltre al palazzo dell’Escurial, un’influenza sul progetto della nuova residenza dovette averla la cosiddetta Granja di San Idelfonso, un sito completamente immerso nella natura amato da Filippo V e Elisabetta Farnese, genitori di Carlo, e dove lo stesso sovrano visse la giovinezza. Nel vasto parco della Granja ci sono numerose fontane alimentate da un grande lago artificiale chiamato Mar. Anche da queste poche informazioni si può facilmente delineare un filo conduttore con il parco della Reggia di Caserta, dove l’acqua, insieme al verde, è l’assoluta protagonista. In definitiva, perciò, il collegamento, purtroppo ancora diffuso, tra la Reggia di Caserta e quella di Versailles è quanto mai inverosimile. Carlo guardò al suo paese d’origine, la Spagna, ai luoghi cari e suggestivi della sua infanzia e giovinezza e creò un centro politico, culturale, artistico e naturalistico che il mondo ci invidia.

Il progetto per la costruzione del nuovo palazzo aveva bisogno di un architetto all’altezza. Dopo aver escluso l’idea del napoletano Mario Giuffredo, e vista la rinuncia di Giuseppe Salvi, la scelta del sovrano ricadde su Luigi Vanvitelli. A spingere Carlo ad affidare l’incarico a Vanvitelli deve aver pesato anche il fatto che l’architetto fosse al tempo stesso anche ingegnere idraulico, peculiarità essenziale per il progetto che aveva in mente il re. La posa della prima pietra, come abbiamo già spiegato, avvenne il 20 gennaio 1752. Di quella giornata abbiamo due testimonianze particolari che ci aiutano a capire come avvenne quell’evento che avrebbe cambiato per sempre la storia del nostro territorio. La prima è dell’artefice dell’opera ovvero Luigi Vanvitelli, mentre la seconda appartiene ad uno dei collaboratori dello stesso nella costruzione della Reggia ovvero Francesco Collecini. Nella sua testimonianza Vanvitelli esordisce con la descrizione dei preparativi della cerimonia:

«Adunque il primo apparire dell’aurora del giorno 20 gennaio dell’anno 1752, che si dimostrò così puro e lucido come se il cielo avesse preso parte alla pubblica letizia, nel piano destinato all’edificio comporsi si videro i reggimenti di fanteria di Molise e dell’Aquila e vari squadroni di cavalleria dei reggimenti del Re e Dragoni della Regina che tutti insieme descrivevano l’ambito dei muri principali della futura fabbrica».

In poche parole, quindi, i soldati si disposero a rettangolo a delimitare le facciate della futura Reggia. La cavalleria si dispose sui lati maggiori, mentre la fanteria su quelli minori. Agli angoli invece si disposero in totale otto cannoni. Nella zona corrispondente alla Cappella Reale venne invece innalzato il palco a cui si accedeva da tre gradini e caratterizzato da dieci colonne che sorreggevano un padiglione di ricche tappezzerie. Al centro c’era un tavolo di velluto sul quale venne posta la cassetta di marmo che doveva porsi come atto di fondazione.

Vanvitelli, quindi, passa a narrare l’inizio e l’evolversi della cerimonia:

«Il primo a giungere alla funzione fu Mons. Nunzio Apostolico, incontrato dal clero della Cappella Reale, quindi sopravvenne il corteggio nobile, vestito a tutta gala, e finalmente la maestà del Re e della Regina in muta a sei [1], col numeroso seguito di altre mute dei Cavalieri e delle principali dame di corte adornate con l’estremo della ricchezza e della leggiadria. Discesero le Regnanti Maestà dalla carrozza e salirono sul magnifico luogo descritto sopra una predella ricoperto di velluto trinato d’oro, ove si assisero in due ricche sedie di appoggio attorniate dai Cavalieri Capi di Corte, Ministri, dai Gentiluomini di Camera e dagli ambasciatori delle Corone straniere, unitamente con molti Uffiziali Militari di rango e numerosa Nobiltà dei Regni. Subito Monsignor Nunzio benedisse la cassetta e la prima pietra fondamentale secondo il rito del Ponteficale Romano. Il Re e la Regina vi posero dentro molti medaglioni d’oro, d’argento e di metallo […] Di primo coperchio alla divisata cassetta servì una lastra quadrata di marmo ne di cui angoli erano impresse quattro croci; e su di questa, mano stessa del Re con la cazzuola distese la calcina e sovrappostavi la pietra fondamentale ve l’affondò con alcuni colpi di martello […] il Re svolgendo il cordame dell’asse, in cui era adattato un manico di legno indiano, fece dolcemente scendere la pietra sul fondo preparato già nella dura terra vergine […] Rimbombava intanto e la circostante campagna e l’aria stessa dalle gioiose acclamazioni dei popolani, dal concerto dei bellici musicali strumenti e del frequente regolato strepitio dei fucili e delle artiglierie».

La descrizione fatta da Vanvitelli potrebbe essere oggi definita come un comunicato ufficiale di organi dello Stato. L’attenzione è rivolta a celebrare l’importanza della giornata che si è svolta e l’apoteosi dei sovrani, senza lasciare spazio a particolari di altra natura. D’altro canto essa ci fa capire come si svolse quella cerimonia e quali furono i gesti principali di quell’atto di fondazione. Qualche informazione in più, invece, è possibile ravvisarla in una lettera scritta da Francesco Collecini, architetto romano, al principe Borghese, in cui descrive quel 20 gennaio del 1752. Alcuni elementi sono naturalmente comuni alla versione di Vanvitelli, ma dalla lettera di Collecini ci giungono altre importanti e curiose informazioni:

«Il primo a venire fu Mons.re Nunzio Apostolico con la sua corte in carrozza e ritrovò sotto il padiglione tutto il Clero della Cappella Reale […] dopo brevissima dimora, essendo terminato a Palazzo il baciamano, arrivò la Guardia del Corpo et il Re e la Regina in muta a sei con appresso le altre mute di corteggio e carrosse (carrozze) di dame e truppe di Cavalieri da Camera li quali con tutta la pompa corteggiavano le Sue Maestà. Quindi si posero nelle loro disposte sedie et il Re ebbe la benignità assieme con la Regina che le baciassimo le mani in pubblico a noi altri soli e chiamò vicino il Sig.re Luigi (Vanvitelli) affinchè lo dirigesse nella sua funzione ed appresso di egli il Sig.re Marcello Fonton l’altro giovane, il Sig.re Domenico Giovannini scarpellino e M.ro (mastro) Pietro Bernascone muratore et il servitore obbligatissimo di V.S. Ill.ma e R.ma Francesco Collecini dove ebbimo l’onore di stare davanti alle Maestà loro».

La testimonianza di Collecini è importante dal punto di vista storico e sociale perché, oltre a restituirci la cronaca dei fatti di quella giornata, ci fa una panoramica su quello che può essere considerato lo staff al seguito di Vanvitelli. Fonton, Giovannini e Bernasconi sono tutti collaboratori del Vanvitelli e proprio come Collecini hanno lavorato tutti da Roma. Collecini, quindi, vuole sottolineare al principe Borghese non solo la presenza di queste professionalità, ma anche la considerazione del sovrano che gli ha concesso di seguire le operazioni della posa della prima pietra e il baciamano. La testimonianza di Collecini va però avanti:

«Alla suddetta funzione v’intervennero tutti li ministri, quello dello Imperatore, di Sardegna, di Olanda, di Polonia. Doppo terminato il Sig.re marchese Foglioni a nome di Sua M.stà diede al Sig.re Luigi una scatola d’oro assai bella del valore di trecento ducati, con entro una cedola di mille, ringraziando le Maestà loro e il Re gli disse è assai poco a quello che meriti […] Mons. Nunzio ebbe in regalo un bel diamante tutto per grazia di Dio, rimase felicemente. Ritornando al Palazzo ove all’assistenza del pranzo vi fummo anche noi e mi fu un corteggio grandissimo. Il doppo pranzo fummo anche noi regalati di un ordine di ventiquattro ducati per ciascheduno».

Anche quest’altro estratto ci trasmette altre informazioni. Quella più accattivante è sicuramente quella del pranzo dopo la cerimonia, svoltosi nel palazzo reale di Napoli, e dell’omaggio di ventiquattro ducati concesso dal sovrano ai membri dello staff di Luigi Vanvitelli. Un ulteriore apprezzamento del lavoro di tutti.

Di Antonio Cembrola fonte@centrostudicaserta