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Transizione demografica: le ragioni della denatalità secondo gli italiani  

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AGI – Il programma di ricerca e comunicazione promosso da Agi e Censis e denominato “Diario dell’innovazione” ha, nel corso degli anni, indagato e monitorato i principali ambiti innovativi della società italiana. Sono state prese in analisi le reazioni ai nuovi schemi di produzione e consumo di beni e servizi, rilevate le nuove opportunità che si venivano a creare e sottolineate le eventuali esternalità che l’avvicendamento tecnologico inevitabilmente determina.

Questo nuovo rapporto si concentra su un tema che ad un primo sguardo potrebbe sembrare avulso rispetto all’idea di innovazione ma che in realtà è intimamente collegato alla capacità del sistema Paese di continuare ad innovare in tutti i campi e a giocare un ruolo da protagonista sui mercati globali: la transizione demografica.

La portata e la pervasività dei fenomeni demografici in atto nel nostro Paese, soprattutto se confrontati con quelli che avvengono contemporaneamente in altri paesi anche europei, è tale da impattare in maniera significativa sia sul sistema di welfare che sull’assetto produttivo ed il mondo economico in generale.

Eppure il “declino” demografico in atto, la denatalità che ha raggiunto livelli preoccupanti e l’invecchiamento progressivo della popolazione non sono temi che rimangono a lungo nel dibattito pubblico e nell’agenda politica pur rappresentando uno dei fenomeni strutturali più studiati e su cui è (relativamente) più semplice fare previsioni. E anche quando questi fenomeni emergono nel dibattito pubblico appare ben poco diffusa la consapevolezza del ruolo che rivestono, della loro interdipendenza con i fenomeni sociali ed economici, così come, e a maggior ragione, dell’importanza di politiche che tengano conto della loro rilevanza.

Certamente, almeno per far fronte alla profonda crisi della natalità nel nostro Paese, alcuni provvedimenti specifici sono stati presi. Ultimo in ordine temporale è l’assegno unico per i figli minorenni. Ma chi pensa che sia solo una questione di risorse finanziarie e che grazie a dei bonus sia possibile invertire significativamente il trend negativo è fuori strada.

Il presidente del Censis Giuseppe De Rita ha da poco ribadito recentemente che non è la (presunta) pauperizzazione dei ceti medi ad essere la causa principale per il numero sempre minore di nuovi nati. Secondo De Rita, infatti, “Tutti dicono che in Italia non c’è più un euro, ma non è vero. aumentano i depositi bancari, le polizze vita, il risparmio nei fondi d’investimento, i soldi provenienti dall’economia sommersa e nascosti nel materasso”. Le cause della denatalità sono da attribuire ad una serie di fattori che si intrecciano e si rinforzano causando una spirale negativa. Ovviamente l’aspetto economico e l’andamento del mercato del lavoro sono tra i fattori più importanti, ma non sono gli unici. Tra gli aspetti fondamentali che contribuiscono al calo delle nascite c’è sicuramente fattore più sistemico. Sempre De Rita ha posto l’accento anche sulle cause più antropologiche: “È un problema di dittatura dell’io. Una società che non sa più dire ‘noi’ non fa figli”.

Alla radice del problema c’è una (mancanza di) visione del futuro e un tipo di approccio alla vita molto diverso da quello della generazione passate. “Per riempire le culle non bastano asili nido gratis. Bisogna lavorare sul tessuto sociale e ricostruire un’idea di comunità. Le culle sempre più vuote sono il risultato di un Paese impaurito, ripiegato sul presente, incapace di pensare al futuro” – ha dichiarato De Rita. Questo è ancora più vero proprio in questi ultimi 18 mesi. La pandemia ha acuito ulteriormente le paure già presenti e ne ha aggiunto di nuove.

Serve quindi un vero e proprio cambio di paradigma per invertire la tendenza e per uscire da questa spirale negativa. Ad aiutare un Paese come il nostro in difficoltà già ben prima della pandemia c’è, però, un’opportunità irripetibile che abbiamo proprio a seguito dell’impatto che il Covid-19 ha avuto: il Next Generation EU. I fondi e soprattutto le riforme previste nel piano italiano, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, possono essere la chiave per dare una scossa ad una società stanca e impaurita, per stravolgere positivamente non solo l’economia ma anche il tessuto sociale. Per questo più che di resilienza, importante nella prima fase per attutire l’impatto repentino e devastante della pandemia, il Piano avrà bisogno di una vera rivoluzione per riuscire una volta per tutte ad interrompere i fenomeni negativi in atto (la denatalità in primis) per cambiare il destino della nostra società. Parafrasando liberamente Tomasi di Lampedusa si potrebbe dire persino ‘cambiare tutto perché tutto cambi’.

L’inverno demografico

Il così detto “inverno demografico” è un fenomeno che sta affliggendo il nostro Paese da vari decenni oramai. Il rallentamento e la stagnazione nella crescita della popolazione è, però, stata compensata nell’ultimo periodo dai flussi migratori che a partire dagli anni ’90 sono stati sempre più consistenti, tanto da garantire una seppur flebile crescita della popolazione residente totale.

Già a partire dal 2013, però, il rallentamento dei nuovi residenti stranieri e il perdurare della contrazione dei residenti italiani ha portato ad una inversione di tendenza: per la prima volta dal dopoguerra la popolazione italiana ha iniziato a diminuire.

Il declino demografico, oramai conclamato, ha di certo subito un’ulteriore accelerata proprio nell’anno della pandemia, ma era comunque presente e costante sin dal 2013. La popolazione totale residente in Italia è passata da poco più di 60,3 milioni del 2013 a poco meno di 59,3 milioni a fine del 2020. In questo periodo la contrazione è stata dell’ 1,8%, oltre un milione di abitanti in meno in valore assoluto, quasi l’equivalente dell’intera città di Milano (fig. 1).

Sull’andamento complessivo della popolazione, come si è già detto, ha esercitato un peso il fenomeno migratorio: il contributo degli stranieri all’andamento crescente della popolazione è aumentato progressivamente a partire dal 2000 ed oggi la quota di stranieri ha raggiunto l’8,5% .

Tuttavia, la popolazione non diminuisce uniformemente in tutte le aree del Paese ma il calo è molto più marcato nel Mezzogiorno rispetto alle altre aree del Paese che, nel caso del Nord-Est addirittura aumenta leggermente.

 

La dinamica demografica in atto è chiara guardando i dati relativi al saldo naturale e a quello migratorio. Mentre nell’ultimo decennio il saldo naturale (nascite-decessi) negativo è stato bilanciato da un saldo migratorio positivo, dovuto sostanzialmente alla crescita dei residenti stranieri, a partire dal 2014 il saldo migratorio non è più riuscito a superare (o compensare) il saldo naturale.

È proprio il ricambio naturale della popolazione a risultare sempre più problematico. La dinamica di natalità e mortalità appare antitetica e, a fronte del numero di nati più ridotto di sempre registrato nell’anno del Covid e del lockdown nazionale con 404 mila unità, nello stesso periodo i decessi sono stati 746mila. Ma anche tornando ad un periodo pre-pandemico e quindi non influenzato dall’eccesso di mortalità causato dal Covid, sono stati oltre 634 mila i decessi nel 2019. Il livello di ricambio naturale è in costante diminuzione e nel 2020 ha raggiunto il valore più basso dal 1918 con 54 nuovi nati ogni 100 residenti morti (tab. 1). Per ogni nuovo fiocco azzurro o rosa nello scorso anno ci sono stati quasi due funerali.

Tutta la struttura d’età della popolazione risulta modificata da questi marcati andamenti demografici. Il dato saliente è la riduzione della popolazione attiva (15-64 anni) e della quota più giovane di popolazione (0-14 anni) dal 1961 ad oggi, passate rispettivamente dal 66,0% al 63,9% del totale e dal 24,5% al 13,0% (fig.3). Di contro la quota di anziani over 64 anni è cresciuta dal 9,5% al 23,2%.

Per questo l’indice di vecchiaia, che rapporta il numero di over 64enni ai minori di 15 anni, cresce in modo considerevole, passando da 38,9 per 100 a 178,4 per 100.

La crisi della natalità

Il fenomeno che più preoccupa soprattutto in chiave futura è sicuramente la forte crisi della natalità presente nel nostro Paese.

Il tasso di natalità è da anni in riduzione ed ormai in decisa caduta libera dal 2015, anno in cui per la prima volta il numero dei nati vivi non ha più superato la soglia simbolica dei 500.000 (tab.1). Anno dopo anno questo tasso fa registrare nuovi minimi storici dall’Unità d’Italia: se nel nel 2019 è risultato pari a 7,0 nati vivi per 1.000 abitanti, nel 2020 è sceso ancora fermandosi a 6,8 nati per 1.000 abitanti. Si tratta di una peculiarità italiana rispetto agli altri paesi europei (fig. 4). Siamo il Paese con il tasso di natalità più basso, ben al di sotto della media europea pari a 9,1 nati per 1.000 abitanti, ma al di sotto anche quelli più in difficoltà come Spagna, Grecia e Portogallo. Ad una distanza siderale rispetto ai principali paesi europei quali la Germania (9,3) e soprattutto la Francia (10,9).

Anche guardando la mappa europea del tasso di fecondità totale, il numero medio di figli per le donne dai 15 ai 49 anni, il nostro Paese risulta essere, insieme a quelli dell’area mediterranea, quello con il valore più basso (fig. 5). Nel 2019 la media dei figli per ogni donna in età fertile in Italia era pari a 1,27. Ben lontano dal valore soglia che permetterebbe di riprodurre la popolazione mantenendo costante la propria struttura pari ad una media di 2,1 figli. Il valore italiano è però anche ben lontano da quello francese pari a 1,86.

Tuttavia, il più elevato tasso di fecondità delle straniere ha ancora un peso importante, infatti, nel 2019, a fronte di un tasso di fertilità complessivo pari a 1,27, quello delle straniere è pari a 1,98, contro l’1,18 delle italiane. Ma la tendenza è ad una riduzione anche del numero medio di figli delle straniere: nel 2010, anno in cui si è registrato il massimo relativo della fecondità totale (1,46), era pari a 2,43 (tab. 2).

I dati preliminari del 2020, disponibili al momento solo per la popolazione totale, confermano la tendenza in atto della diminuzione nel numero medio dei figli (1,24).

Uno recente studio di Beaujouan e Berghammer del dipartimento di demografia dell’Università di Vienna ha seguito una coorte di donne nate nella prima metà degli anni ’70 e ha confrontato il numero dei figli desiderati a 20 anni e il numero dei figli effettivamente avuto entro i 40 anni (fig. 6). La differenza registrata tra il desiderata e la realtà è definito come fertility gap (rappresentato come differenza di colore nella fig. 6). Può forse essere una sorpresa per chi crede che la bassa fertilità sia completamente imputabile ad uno scarso desiderio di genitorialità ma in tutti i paesi considerati il numero di figli desiderati da giovani è più alto rispetto a quelli che si è poi stati in grado di mettere al mondo. Questa differenza ha dimensioni diverse nei diversi paesi. È molto alta nel Sud Europa con Spagna e Grecia in cui il gap supera i 0,7 figli e in Italia in cui è 0,66. È minima nel caso di un Paese come la Francia in cui il welfare statale, soprattutto quello destinato alla famiglie e alle madri, è molto presente.

La presenza di questo iato così marcato è comunque una fonte di speranza. Questo studio, infatti, dimostra che le donne italiane non hanno rinunciato a priori o definitivamente a fare figli. È quindi possibile, anzi auspicabile, continuare a lavorare per eliminare o ridurre sia i fattori che ostacolano la maternità che quelli che rendono difficile tornare a guardare al futuro con speranza.

I programmi stravolti delle famiglie italiane e le cause della denatalità

A peggiorare la situazione già critica è intervenuto un fattore esterno inaspettato e travolgente, la diffusione pandemica del Sars-Cov2.

L’indagine Agi-Censis svolta nella fase finale della così detta “terza ondata”, a fine aprile 2021, ha analizzato le opinioni di un campione rappresentativo di famiglie italiane con riferimento al modo con cui la pandemia ha modificato le strategie familiari.

I capifamiglia giovani che, quindi, sono nel pieno del periodo riproduttivo dichiarano che all’inizio del periodo pandemico in un caso su tre avevano in programma convivenze o matrimoni e in poco meno del 30% dei casi stavano pianificando una nuova gravidanza (fig. 7).

Ma di questo terzo delle famiglie che stavano comunque pensando di creare o allargare una famiglia soltanto il 26,5% ha continuato a progettare o ha effettivamente iniziato un matrimonio o una convivenza stabile (fig. 8). In quasi due casi su tre questa decisione è stata rinviata aspettando un periodo più favorevole, senza più le limitazioni dovute alle regole anti contagio, o in parte modificata. In un caso su dieci il progetto originale è stato completamente annullato proprio a causa del periodo negativo.

La stragrande maggioranza delle famiglie che stavano pensando di generare un nuovo nato nel corso del 2020 e del 2021 ha deciso di rinviare (55,3%) o persino di rinunciare definitivamente (11,1%) al proprio progetto genitoriale. Soltanto in una famiglia su tre tra quelle che lo stavano pianificando hanno mantenuto i loro propositi o sono persino riuscite a portarlo a compimento.

Ma come si spiega—secondo il parere degli italiani – questa generalizzata crisi delle nascite nel nostro Paese?

Tra i fattori che sono ritenuti più importanti il principale è sicuramente la difficoltà di trovare un’occupazione che sia stabile (55,3%) e che quindi permetta ai giovani di poter progettare il futuro così come è stato possibile per i genitori e per i nonni prima ancora (fig. 9). Segmentando le risposte per l’età del capofamiglia notiamo come sia proprio la generazione dei baby boomers (genitori di figli giovani e l’ultima ad aver vissuto un mondo del lavoro dove la stabilità era la norma piuttosto che l’eccezione) a ritenere che la precarizzazione sia la causa delle mancate nascite.

La seconda scelta, molto indicata soprattutto dai giovani (44,3%), è sempre riferita ad uno squilibrio del mercato del lavoro e della società italiana in genere. Le donne che fanno figli sono spesso penalizzate non solo con un rallentamento della carriera ma persino con la fuoriuscita dal mercato del lavoro. In mancanza di una rete familiare di supporto significativa e sempre presente la mole di impegni di cura, che nel nostro Paese sono sproporzionalmente a carico alle donne, e dall’assenza di un sistema di welfare “alla francese” in grado di permettere un’adeguata conciliazione tra impegni familiari e impegni lavorativi, finiscono per sopraffare le donne che sono quindi spesso costrette a rinunciare completamente (e in molti casi definitivamente) al lavoro per poter far crescere i figli.

Quasi un terzo dei rispondenti ha segnalato fra le motivazioni principali un fattore più sistemico, la mancanza di fiducia nel futuro e la scarsa voglia di rischiare uscendo dal “qui ed ora” che è necessaria per poter decidere di mettere al mondo un figlio. Le cause di questa sfiducia come si è già detto sono sicuramente diverse ad iniziare dalla precarietà lavorativa, passando per l’incertezza politico-economica fino alla mancanza di un tessuto sociale collettivo in grado di far guardare al futuro i singoli individui con speranza e attesa.

A queste cause i giovani ne aggiungono un’altra che chiude il cerchio della precarietà: la difficoltà da parte degli stessi giovani di accedere a soluzioni abitative dignitose e a costi contenuti.

La nuova iniziativa governativa che permette ai giovani di accedere a delle garanzie “di stato” per i mutui prima casa può sicuramente dare un impulso positivo verso il superamento di questa problematica anche se, come per tutte le misure, è assolutamente necessario venga resa stabile e duratura nel tempo per poter permettere una pianificazione adeguata a tutti i giovani.

Infine, non viene ritenuta di fondamentale importanza l’eventualità che tra i giovani possa esserci un rifiuto per relazioni di tipo stabile che quindi presupporrebbe un rifiuto per ogni tipo di impegno.

Source: agi


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