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Tra l'arte di Caparezza e il tormentone di Baby K, le recensioni delle uscite di questa settimana

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I dischi della settimana sono quello di Caparezza, quello di Vasco Brondi e quello di Tricarico, e sono tutti degli ottimi lavori. Mentre Mario Venuti distrugge Nada, e Baby K ci serve il primo orrendo tormentone in vista dell’estate, Bianconi ci propone un nuovo pezzo ricco di poesia, come quello di Mobrici, che canta la separazione dei Canova in maniera commovente; e poi Tutti Fenomeni che torna con un brano nuovamente prodotto da sua maestà Niccolò Contessa.

Caparezza – “Exuvia”: Caparezza torna a fare la parte del ninja che si affila le spade sulla nostra inutile piccolezza di uomini, indaffarati tra ciò che non va come sarebbe giusto e ciò che non va come vorremmo che andasse. Album più cupo, anche evidentemente più maturo, insostituibile, una visione della vita necessaria la sua, anche quando così profondamente intima, anche quando ci rendiamo conto che stavolta non ci sono hit a tirare la carretta, ma storie, ragionamenti, quasi un simposio di emozioni e crude verità, che stanno lì eppure spesso ci sembrano irraggiungibili, fin quando non arriva Caparezza a rapparcele. “Exuvia” è cantautorato puro, dimenticatevi quei deliri di onnipotenza spicciola, quell’immedesimazione forzata in un film di Spike Lee, la celebrazione della sfortuna sociale, che poi finisce per impoverirla della bellezza che nonostante tutto conserva, questa è vita vera, un artista vero che fa musica vera.

Francesco Bianconi – “Il mondo nuovo”: Essere accolti nel labirinto di Bianconi è sempre un piacere, perché le pareti sono morbide, gli spigoli smussati, puoi correre, volare, capriolare insieme alle parole e alle immagini che il padrone di casa offre, senza rischiare di farti male. Non ti fa male nemmeno quando ne esci fuori, perché Bianconi con quelle parole, quella precisa voce, quella flemma quasi divina, ha la capacità di scolpire il mondo ad immagine e somiglianza della propria poesia. Così clicchi play, ascolti e tutto ti sembra più bello.

Vasco Brondi – “Paesaggio dopo la battaglia”: è facile intuire come mai molti non sopportino Vasco Brondi, che la sua poetica volutamente intellettuale sia confusa per un rigurgito radical chic; è ancora più facile intuire perché molti amino alla follia Vasco Brondi, forse ancor di più perché noi facciamo parte di questa schiera di nerd innamorati della parola e pochi in Italia la masticano, specialmente in musica, come lui. Forse è che mettiamo sempre un po’ di noi stessi nella musica che ascoltiamo, rifiutando quel determinato genere o quella determinata canzone, che non parla di noi o che non ci descrive il mondo per come noi lo vediamo e viviamo. Allora forse, semplicemente, il mondo non è bello come un pezzo di Vasco Brondi, questo è evidente, e in qualche modo ci sentiamo traditi; o forse è pauroso immergersi in quell’apocalisse di immagini che propone, in ogni singolo pezzo. Allora forse serve un po’ di concentrazione, di tempo, di voglia, per afferrare la bellezza statuaria di questo “Paesaggio dopo la battaglia”, che è un disco complesso, come tutti i dischi di Vasco Brondi, anche quando lo chiamavamo Luci della Centrale Elettrica, e come tutte le cose più belle della vita. È un disco che ti scava dentro e che, attenzione, niente paura, è anche forse il più accessibile della carriera di Brondi; un disco che costringe in qualche modo all’introspezione, perché se ti piazzi davanti ad uno specchio e guardi, ci sei tu lì davanti, e alle volte, anche solo per migliorarci, dobbiamo farci i conti con questa cosa, inutile che perdiamo tempo a far finta di abitare in un reggeaton, alle volte dobbiamo spogliarci, ammirarci e odiarci, se vogliamo migliorare. Ecco, “Paesaggio dopo la battaglia” in qualche modo, migliora.

Tricarico – “Amore dillo senza ridere ma non troppo seriamente”: Troviamo piuttosto eroico il fatto che nel bel mezzo di cotanta bruttura, dentro e fuori il circuito musicale italiano, ci sia ancora qualcuno che racconti favole. Tricarico fa questo da sempre, e non sono favole che arrivano da posti lontani, ma da casa nostra, siamo noi, lui ha la capacità, innata, magnifica, eccezionale, di trasformare noi in favole. Così nella sua visione tutto appare ricoperto da una patina di incanto trascinante, poetico, altro, inarrivabile, come in “Mi manchi negli occhi”, che dovrebbe spalancare le finestre anche al più trucido degli esseri viventi. La discografia, diciamocelo chiaramente, potrebbe non essere più un posto per cantautori veri come Tricarico, per chi vuole viaggiare con la fantasia; siamo esserini minuscoli in costante richiesta di intrattenimento, tant’è che finchè Tricarico cantava “Puttana la maestra” tutto ok, non abbiamo mai capito quella canzone (esattamente come adesso non stiamo capendo “Musica leggerissima”, per dire) e ce la ballavamo di gusto; quando si è capito che dietro quell’aspetto così distaccato, quasi comico nella sua estrema serietà, si celava in realtà un poeta, allora il grande pubblico lo ha scaricato. Siamo gli orchi cattivi delle nostre stesse favole, la nostra fortuna è che alla fine, in linea di massima, perlomeno nelle favole, i buoni vincono.

Mario Venuti – “Ma che freddo fa”: Il capolavoro di Nada fa un frontale con “Mas Que Nada” di Sergio Mendes e i Black Eyed Peas. Non si salva nessuno.

TY1 – “Djungle”: La verità è che questi dischi ideati e firmati dai producer stanno diventando il miglior prodotto proposto dalla scena rap. Specie se il producer in questione è così bravo e TY1 è tra i migliori in assoluto; lo dimostrano le 14 tracce di questo “Djungle”, tutte veramente molto interessanti, perfino artisti che campano più di spot, di immagini, che di veri e propri contenuti, tipo Gue Pequeno e Myss Keta, ne escono quasi come se fossero artisti veri. TY1 poi sa trattare anche la materia pop, tant’è che due dei migliori brani del disco prevedono la presenza di Neffa e Tiromancino, perfettamente integrati in questa festa di talenti veri.

Fasma – “Indelebile”: Solita ballad in autotune, ascoltabile, digeribile, ma dimenticabile. Fasma sa fare questo e, temiamo, questo soltano; e personalmente ci ha già scocciato.

Baby K feat. Omar Montes – “Pa Ti”: Se nel bel mezzo dell’ascolto di questo brano qualcuno irrompesse in casa, ci sterminasse la famiglia e ci strappasse le orecchie per torturarci, ci toccherebbe comunque ringraziarlo.

Mobrici – “La fine”: Un brano talmente intenso da sembrare quasi crudele, ti tira per le orecchie dentro una storia d’amore, quella tra Mobrici ed i suoi Canova, una nuvola di nostalgia ti assale, improvvisamente ti piove in faccia, perché parliamo di un testo commovente; e poi, quando senti che stai per annegare, come un amico che ti cala la testa in acqua per scherzo al mare, ti ritira su e tu ti senti meglio, perché “sembrava la fine” e invece no, tutto il contrario forse. Eccezionale.

Ariete – “L’ultima notte”: Una versione un po’ più estiva e sbarazzina dell’Ariete che conosciamo, una delle più interessanti nuove voci del cantautorato italiano. Il brano orbita (molto vagamente) a metà strada tra “Kiss me” dei Sixpence None the Richer e “Polynesia” di Gazzelle; ma sono vaghi riferimenti, in realtà si tratta di un ottimo brano, perfettamente strutturato e Ariete si conferma una delle più importanti scoperte del nuovo cantautorato italiano.

Tutti Fenomeni – “Faccia tosta”: Tutti Fenomeni, artista sul quale ha scommesso Niccolò Contessa, ovvero colui che ha dato il La alla rivoluzione indie italiana prima di togliere la sua faccia dai manifesti di questo bizzarro e potente movimento culturale, è forse uno degli artisti che più ha pagato l’arrivo della pandemia. Il suo disco d’esordio infatti aveva messo più o meno tutti d’accordo, ma non ha fatto in tempo a partire che tutte le porte si sono chiuse. Oggi torna con un pezzo altrettanto bello, in cui si scorge distintamente, ancora una volta, quell’intuizione futurista che fa di Niccolò Contessa Niccolò Contessa e di Tutti Fenomeni un fenomeno.

GionnyScandal – “Anti”: L’intenzione di fare un album pop punk si trasforma in una rievocazione non richiesta dei Finley.

The Andre – “Evoluzione”: Che sorpresa interessante da parte del ragazzo che porta in giro la voce identica a Fabrizio De André. Dopo i primi imperdibili esperimenti su YouTube di “De Andrè che canta la trap”, The Andre, senza l’accento sulla “e”, prova a fare sul serio con la propria musica. Ascoltarlo è un’esperienza distopica, molto complesso da recensire, perché prima di tutto bisogna levarsi dalla testa quel timbro a noi tutti così caro, così intimo. Però, quando finalmente ci si lascia andare liberi all’ascolto, si nota che la musica che propone è molto valida, questo “Evoluzione” è complesso ma abbordabile e adorabile.

Giuse The Lizia – “Vietnam”: Narrazione fluida, ironica, dissacrante, dei tira e molla amorosi. È rap, ma leggero, moderno, suonato, poppizzato a dovere. Uno spasso.

Davide Diva – “Piccolo album colorato”: Non è che tutte le cose nella musica si possono spiegare, per esempio c’è qualcosa di ipnotico nelle canzoni di Davide Diva. Eppure parliamo di un cantautorato pulito, intenso, cantato bene, con delle intuizioni notevoli dentro una struttura solida, si, ma non sconvolgente. Una grande donna della musica italiana una volta disse: “Te ne accorgi quando una persona ferma l’aria”, ecco non abbiamo mai avuto l’onore di ascoltare Davide Diva dal vivo, certamente quando si tornerà a suonare non ce lo perderemo, quello che però possiamo dire è che le sue canzoni “fermano l’aria”, restano in sospeso, hanno quel qualcosa in più che non sappiamo spiegare. Ma è un dubbio che dura giusto qualche secondo, alla fine ce le godiamo e chissenefrega.

Source: agi


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