di Antonello Longo
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Lo sfruttamento di quasi tutte le fonti energetiche ha causato e continua a provocare seri problemi, oltre che per la salubrità dell’aria, dell’acqua e del suolo, anche di tutela e difesa del paesaggio.
Per contrastare il cambiamento climatico e giungere ad una società decarbonizzata entro il 2050, così come dicono di proporsi i capi di stato e di governo dei principali paesi produttori del mondo, si punta a sprigionare tutta la potenzialità dell’idrogeno, alle pale eoliche, ai parchi fotovoltaici. E le grandi multinazionali dell’energia hanno ben compreso in che direzione soffia oggi il vento del business.
In Italia una massa ingente di investimenti pubblici previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza sarà riversata nei prossimi sei anni nelle fonti energetiche rinnovabili e un timore diffuso nelle comunità locali, che non può essere ignorato e rischia di dividere il mondo ambientalista, è l’impatto ambientale dell’installazione di impianti per la produzione di energia dall’eolico e dal fotovoltaico.
Trasformare i nostri campi in distese di pannelli solari, far sormontare le nostre alture da file sterminate di giganteschi mulini a vento può stravolgere il paesaggio e, con esso, la fisionomia di luoghi anche rinomati per la loro bellezza e l’identità culturale di intere comunità.
Paradossalmente, le fonti energetiche “pulite”, come i grandi parchi fotovoltaici o le centrali geotermiche hanno tutte, almeno all’apparenza, un impatto negativo più evidente sul paesaggio perché, a parità di produzione, ricavare energia dal sole e dal vento richiede una maggiore estensione sul territorio.
Ora, è evidente che il paesaggio ha subito sempre la manipolazione dell’uomo. Un ambiente antropizzato è anche, fatalmente, un paesaggio modificato da costruzioni, coltivazioni, impianti. Cambiamenti e manufatti umani caratterizzano l’aspetto di città e campagne, delle coste e spesso sono anch’essi un’attrazione turistica.
I paesaggi agricoli più apprezzati, come, per esempio, le colline toscane o le Langhe piemontesi, un tempo erano tutti vaste foreste di querce, di frassini e così via.
Vien fatto di pensare, allora, che il vero problema non sia tanto la presenza di manufatti umani quanto l’armonizzazione di questi nel contesto, non solo paesistico ma anche economico, in cui vengono collocati, la capacità di ritrovare un rapporto accettabile tra l’efficientismo ed armonia.
In generale i manufatti che impattano meno sull’ambiente sono quelli per la cui realizzazione vengono impiegati materiali che sono elementi del territorio. La montagna ci piace con le sue baite, le campagne con le cascine, le colline formano spesso un tutt’uno con i borghi, che sembrano complementi, continuazioni del territorio circostante.
Uno sforzo per armonizzare gli impianti col paesaggio va fatto e non è una questione di secondaria importanza. È importante che la comunità arrivi a sentire come desiderabile e non da respingere come alienante un elemento nuovo che appare oggi indispensabile per salvaguardare il futuro ma che non deve compromettere l’identità, la riconoscibilità di un territorio.
Senza trascurare i problemi che possono essere legati all’economia locale, alle colture, al possesso dei suoli. Pertanto la produzione di energia rinnovabile va inserita in una quadro partecipato di programmazione territoriale, che conto, sì, delle esigenze di efficienza produttiva, ma nel rispetto di criteri ecologici, a partire dalla tutela della biodiversità e della salvaguardia dei valori paesaggistici.
Rischiamo di andare incontro ad una catastrofe climatica, e questo rende sopportabile la presenza di un aerogeneratore nel nostro ambiente. Ma non è importante soltanto la quantità di kilowattora che questo può produrre, perché, per usare le parole di Alex Langer, “la conversione ecologica potrà affermarsi solo se apparirà socialmente desiderabile”, se saremo capaci di affermare “una consapevole e qualificata volontà di vivere bene”.
Ecco perché il problema dello sfruttamento delle fonti rinnovabili con la tutela del paesaggio non va sottovalutata, obiettivi climatici e tutela del territorio non possono essere ragioni contrapposte. Far nascere un conflitto tra energia e paesaggio determinerebbe conseguenze altrettanto distruttive dell’assurda scelta tra lavoro e salute.
La sfida di produrre ogni anno in Italia, nel tempo più breve possibile, centinaia di terawattora, renderà di certo molto difficile curare altri aspetti diversi da quello della mera efficienza degli impianti. Ma non è scolpito nella pietra che tutti gli aerogeneratori sparsi nel mondo debbano replicare il modello standard prodotto dalle multinazionali, che magari è più conveniente nel prezzo.
La transizione ecologica deve tenere insieme biodiversità e riduzione delle emissioni nocive, senza trascurare di creare le condizioni per rendere armonica e desiderabile la sostenibilità del futuro.
La transizione ecologica non può essere assimilata, negli aspetti determinati dalla sua gestione, all’espropriazione e alla trasformazione brutale del paesaggio che sono prodotte dai processi di industrializzazione e di urbanizzazione selvaggia. Va dunque evitato il cosiddetto “Landscape grabbing”, cioè un profondo stravolgimento dei luoghi dove si svolge la vita delle persone, cui conseguono smarrimento dei valori economici legati al paesaggio e perdita senso e di identità territoriale.
Un ruolo determinante da questo punto di vista sarà quello giocato dalle comunità locali, dalla possibilità delle popolazioni di affiancare i livelli decisionali con processi di partecipazione.