di Giovanni Cominelli
Toni Negri ha definito l’Autonomia operaia come “un movimento di matrice cattolica, una Solidarnosc italiana, contro la pretesa egemonia dei comunisti sul movimento operaio”. Già, l’Azione cattolica, dove si aggiravano personaggi quali Umberto Eco, Gianni Vattimo, Silvio Garattini e molti altri… Quest’ultimo, oggi 95enne, da me interpellato, ricorda ancora “Toni, quel simpatico ragazzo veneto”, presidente della GIAC padovana, che si incontrava a Roma nei corridoi dell’Azione cattolica. Toni che leggeva Bernanos, Maritain, Simon Weil.
Difficile comprendere il Toni Negri successivo, senza tornare alle origini di un cattolicesimo che con Pio XII sognava di rifondare la civiltà. Con due varianti. Se Luigi Gedda, presidente dell’Azione cattolica, continuava a perseguire un’idea clerico-statalista della presenza cristiana nel mondo, fino a contrastare fortemente l’autonomia della DC, altri – da Dossetti, a La Pira, ad Arturo Paoli a Carlo Carretto al mondo dei giovani di allora – erano mossi dal radicalismo messianico: il rinnovamento doveva generare una nuova società, una nuova umanità e le istituzioni, quali la Chiesa, il sistema dei partiti e lo Stato, ne dovevano uscire trasformate.
La normalizzazione politico-sociale del centrismo post-degasperiano, la momentanea piegatura filo-democristiana dei mondi vitali cattolici, la reazione alla spinta consumistica e secolarizzante portò l’ala più radicale a ritirarsi sul Monte Tabor, come fece Dossetti, o ad andare in missione – come Arturo Paoli e Carlo Carretto – o a laicizzarsi e a collegarsi, nel caso di Toni Negri, con l’operaismo di Morandi e Panzieri e a passare rapidamente dalla “Pacem in Terris” alla “Populorum progressio” ai Grundrisse di Marx.
Verso l’operaismo
Erano marxisti? Erano comunisti? Se l’analisi della società e dello Stato ricorreva alle categorie-chiave del materialismo storico, tuttavia il Soggetto del “movimento reale che cambia lo stato di cose presente” – questa la definizione di “comunismo” nel Manifesto del 1848 – non era più né la classe operaia né i suoi partiti e sindacati. Così teorizzò Tronti in “Operai e Capitale”.
Erano “i nuovi operai”, strappati brutalmente alle campagne del Sud o a quelle lombardo-venete, costretti alla catena di montaggio, con ritmi tayloristici frenetici, abitanti in baracche di periferia: erano loro la vera classe operaia. La “nuova razza pagana”, come la definiva Asor Rosa. “Pagana”, perché che non si riconosceva nel monoteismo gramscio-togliattiano del PCI e nel sindacato come sua cinghia di trasmissione, ma praticava una sorta di anarchico politeismo autonomo.
L’arrivo del ’68 studentesco e il coagulo momentaneo di operai e studenti nel 1969 fecero sognare di un fantomatico “operaio sociale” quale nuovo Soggetto” rivoluzionario, capace di sovvertire la società e lo Stato e da costruire, assemblandone i mille frammenti dispersi negli interstizi della produzione e dell’organizzazione sociale. Donde la teorizzazione in “Dominio e sabotaggio”: “Ogni ordinamento sociale borghese è una certa legittimazione di violenza”. Fin qui Marx. Ma, aggiunge Negri: “Nulla rivela a tal punto l’enorme storica positività dell’autovalorizzazione operaia, nulla più del sabotaggio. Nulla più di quest’attività di franco tiratore, di sabotatore, di assenteista, di deviante, di criminale che mi trovo a vivere”. Cui aggiungeva, con un lampo pateticamente dannunziano: “Immediatamente mi sento il calore della comunità operaia e proletaria, tutte le volte che mi calo il passamontagna…”. Ora, né Marx né, tampoco, Engels, Lenin, Stalin e Mao-Tse-tung avrebbero mai tollerato l’autovalorizzazione operaia e l’interpretazione messianica del suo ruolo. E forse neppure la Rosa Luxemburg dei Consigli. A Berlino Est nel 1953, gli operai comunisti erano stati schiacciati dai carri armati comunisti.Quello di Toni Negri era sorelismo, era la violenza vetero-testamentaria degli Ebrei, oppressi dagli Amaleciti, dai Persiani o dai Romani.
L’insurrezionalismo rivoluzionario
Tuttavia era infondato il teorema del 7 Aprile 1979 del magistrato Pietro Calogero, per il quale Toni Negri era il nuovo Ernst Stavro Blofeld del terrorismo. Il salto al terrorismo dell’insurrezionalismo di Autonomia operaia, che praticava il sabotaggio delle linee di produzione o l’esproprio proletario di qualche bottiglia di whisky nei supermercati, non era epistemologicamente possibile. Le BR avevano adottato un modello di lotta armata puramente terroristica sul modello dei GAP partigiani. Quanto a Prima Linea, era certamente più vicina al modello della violenza diffusa dal basso, teorizzata da Toni Negri. Per ciò PL fu distrutta in tre anni. Se Negri non fu mai capo del Partito armato, vero è che l’Autonomia operaia di Toni Negri e Oreste Scalzone ha indotto, con tragica spensieratezza “rivoluzionaria” e in nome del “comunismo maturo”, una parte della disciolta Lotta continua e del Movimento del ’77 alla manovalanza armata per Prima Linea e per le BR. E, d’altra parte, non condannò mai gli omicidi perpetrati contro i riformisti della politica, della cultura, delle istituzioni. I terroristi? Solo compagni che sbagliavano tempi e tattica dell’uso della violenza armata. Negri ha atteso il 1987, in un’intervista a Penthouse, non esattamente una rivista marxiana, per definire le BR “un gruppuscolo marxista-leninista ferocemente ottuso e assassino”. Intervistato da Avvenire, Negri ha ammesso di essere stato “irresponsabile” e ha promesso, come fosse in confessionale, di stare d’ora in poi “più attento”. Troppo tardi!
L’anomalia selvaggia
Politico fallito, Negri fu un notevole filosofo della politica. In carcere elabora e pubblica nel Gennaio del 1981, scusandosi di non poter presentare una bibliografia completa, “L’anomalia selvaggia – Saggio su potere e potenza in Baruch Spinoza”. Si tratta, in realtà, di un’autobiografia intellettuale: lo Spinoza è la maschera – o il passamontagna? – del Negri medesimo, che va alla ricerca di una fondazione metafisica e esistenziale della politica rivoluzionaria, al fine di definire “una fenomenologia della prassi rivoluzionaria costituiva dell’avvenire”.
“Anomalo” Spinoza, perché sovversivo rispetto alla trinità del pensiero borghese di Hobbes, Rousseau, Hegel, – secondo la linea interpretativa proposta di G. Lukacs – perché assume “la vita, la ragione, la libertà come il contrario dell’ordine capitalistico e di ogni mistificazione statualistica, contro il giacobinismo borghese e socialista”. A quella trinità Negri contrappone Machiavelli, Spinoza, Marx, quali testimoni dell’“unità del progetto umano di liberazione” …” Costituzione e libertà contro Diritto e Stato”.
La “Natura naturans sive Deus” di Spinoza non è quella sfera pacifica e ben arrotondata dell’Essere, che E. Severino ha tratto da Parmenide. Il suo oceano eternamente generativo è ribollente come la lava dei “conatus” degli individui che la “Natura naturans” genera e sempre riassorbe. Il “conatus” è l’infinita produttività/generatività del lavoro, è l’indomabile tensione di liberazione,” la potenza umana contro il potere del capitale”. Davvero libero il “conatus”? Solo se accetta lucidamente la Necessità, secondo Spinoza. Cui però l’ermeneutica di Negri si ribella.
La politica diviene così il movimento del “conatus” individuale, nel quale l’”Amor Dei intellectualis” – l’acme contemplativo di questa libertà pacificata con la necessità – si fonde con la prassi liberatrice. Così l’individuo diventa un intreccio ontologico di vita e destino, di finitudine e di pienezza storico-ontologica, di volontarismo e di accettazione. Il “conatus” è autoredentivo. La finitudine di Negri-Spinoza non richiede né redenzione né salvezza.
Negli Anni Duemila, a questi “eroici furori” spinoziani Negri cercherà di offrire uno sbocco teorico-politico con la trilogia “Impero”, “Moltitudine”, “Comune”, alla ricerca del “potere costituente”, oltre e contro le istituzioni vigenti: una governance globale, senza Stato, fondata sulle libertà. E qui si ricongiunge con l’antica utopia dell’abolizione dello Stato, sostituito dalla pura amministrazione, come da “Manoscritti economico-filosofici”.
Quanto di “umanesimo plenario” alla Paolo VI e quanta nostalgia ebraico-cristiana di Assoluto e di Redenzione stia dietro tutto questo itinerario è facile da constatare. Ma la vicenda politico-intellettuale di Negri testimonia che gettare la contingenza del “conatus” dell’individuo nel plasma originario dell’Assoluto, al fine di conferirle un senso, porta dritti dritti al nichilismo… rivoluzionario.
Per informazioni, se filosofi, rivolgersi a Nietzsche; se politici, chiedere ai nichilisti russi di fine Ottocento. Ai pochi politici riformisti residui, ahinoi, resta la fatica improba e poco romantica della contingenza. Ai filosofi il compito di “fondarla”
Liberta’eguale