Type to search

TOGLIATTI “LA SVOLTA DI SALERNO” e la struttura del “partito nuovo”

Share

Quando, il pomeriggio del 27 marzo 1944, Togliatti sbarcò a Napoli, le direttrici di massima sulla futura politica del partito comunista italiano erano state già precedentemente annunciate con due sue interviste rilasciate al Cairo e ad Algeri. Tuttavia, la sorpresa dei militanti non fu solo per l’improvvisa e inaspettata comparsa del “leggendario Ercoli” nei locali della Federazione napoletana del PCI (1).
La sorpresa e lo sbalordimento diventò generale quando i quadri dirigenti del 1° Consiglio nazionale delle regioni liberate, convenuti alla riunione del 31 marzo, appresero le linee essenziali del suo pensiero sulla strategia che il PCI avrebbe dovuto perseguire nell’immediato.

La svolta indicata da Togliatti veniva resa nota nella risoluzione conclusiva dei lavori del Consiglio nazionale del partito e nell’intervista che lo stesso Togliatti aveva rilasciato all’Unità il 2 aprile successivo. In quella circostanza fu avanzata la proposta di rinviare la soluzione delle questioni istituzionali alle decisioni di un’Assemblea nazionale costituente che si sarebbe dovuta convocare subito dopo la fine del conflitto; per il momento, si proponeva, di creare un nuovo governo provvisorio, rappresentativo di tutti i partiti antifascisti, che fosse in grado di creare un esercito in grado di combattere risolutamente contro i tedeschi ed i fascisti.

La risoluzione scaturita dal I Consiglio dava assicurazioni a tutti gli italiani, indipendentemente dalla loro collocazione sociale o politica, che la l’azione del PCI era tesa essenzialmente a liberare il paese dai tedeschi e dai fascisti.
Dei lavori di quel Consiglio nazionale non esiste traccia di un verbale degli interventi; tuttavia, nonostante che il leader del partito avesse tracciato le linee di un radicale capovolgimento di strategia rispetto agli obiettivi perseguiti nei mesi precedenti ed alle aspettative dei propri militanti, non risulta vi fossero state voci di opposizione alla linea di Togliatti.

La mancanza di un dissenso può risultare incomprensibile se si considera l’azione politica dei dirigenti comunisti prima dell’arrivo di Togliatti e il giudizio che esprimevano sul governo Badoglio.
All’indomani dell’otto settembre, infatti, la contrapposizione tra il governo e il CLN, soprattutto, con le sue componenti azioniste e socialiste ostili ad ogni forma
di collaborazione con la monarchia (2), andò accentuandosi e ciò diede luogo, nel corso dell’inverno 1943-44, ad uno stato di tensione senza vie d’uscita.

L’impasse politica si rifletté anche nelle strutture del partito comunista, il quale si stava riorganizzando soprattutto grazie all’opera e alla tenacia dei vecchi militanti di base ed al reclutamento di nuove forze, per lo più composte da giovani operai e intellettuali. In quella prima fase, molti nuclei comunisti sorsero in modo quasi spontaneo, stabilendo, per tutta una prima fase, labili legami con le strutture organizzate del PCI; in mancanza di stretti collegamenti col centro dirigente, le loro istanze “rivoluzionarie” sembravano non essere al corrente dello sviluppo della strategia di unità antifascista che il movimento comunista internazionale aveva promosso a partire dall’estate del 1941 (3). Per cui, in determinate zone, dove operavano gruppi spontanei e scollegati dal centro dirigente, si ebbero casi di <<vera e propria insurrezione, specie in Sicilia, in Calabria e in Puglia, dove gli esponenti locali davano in modo caotico parole d’ordine ispirate alla prospettiva di una rivoluzione socialista imminente>>. (4)

Anche se tra i delegati del I Consiglio nazionale del PCI circolava la <<sensazione comune che la mossa di Togliatti avesse rimesso in corsa le sinistre […] spostato il loro treno da un binario morto>> (5), indubbiamente la prospettiva indicata dal leader del PCI suonava come una sconfessione delle posizioni politiche assunte dai dirigenti comunisti all’interno dei vari CLN.(6)

Il dibattito sulle nuove prospettive non registrò dissensi di fondo, all’interno del gruppo dirigente, nelle settimane successive: i maggiori dirigenti comunisti, <<non avanzano mai un momento, nel corso dell’intenso dibattito interno, l’ipotesi che ci si possa opporre alla svolta. Chi parla di accettazione entusiastica, chi di convinzione, chi più semplicemente di spirito di disciplina, per motivare il proprio assenso>>. (7)

Nelle settimane successive risultò inconsistente la possibilità che si formasse, dentro il PCI, un’opposizione alla svolta politica: per giunta, essa avrebbe potuto trovare alimento dal sommovimento sociale e politico in atto nel paese. Le obiezioni alla strategia togliattiana si appuntarono più sul metodo con cui i quadri vennero investiti della dirompente novità politica, che sulla sostanza stessa della proposta. (8)
Non c’è dubbio che quella sorprendente adesione derivasse anche dal convincimento che in qualche modo si dovesse uscire dall’impasse politica in cui si era arenato il PCI (e non solo quello, ma tutto il movimento antifascista organizzato nel CLN) (9), ma ciò non spiega compiutamente le ragioni di una così immediata adesione alla svolta politica indicata dal leader comunista, se non si considerano alcuni elementi di fondo che caratterizzavano la natura del PCI, la sua peculiare identità, il suo modo di essere.

Uno di questi era legato all’indiscusso carisma di cui godeva Togliatti tra i comunisti italiani. Gli operai e i giovani intellettuali che avevano imboccato la via della lotta partigiana ed il cui approdo al comunismo era dovuto spesso ad una crisi ideale maturata nelle file delle organizzazioni giovanili fasciste, sentivano un grande rispetto per gli uomini che avevano affrontato il carcere o l’esilio per resistere al fascismo. Per essi Togliatti rappresentava la continuità storica con il movimento rivoluzionario, colui che aveva diretto il Comintern negli anni di “ferro e di fuoco”, in stretta collaborazione con Stalin.

Il legame con l’URSS, la sua mitizzazione in quanto <<patria del socialismo>>, era un sentimento che aveva profonde radici nel partito: radici che, com’è stato osservato, erano state gettate <<dai dirigenti e da loro tenacemente irrobustite e amorevolmente curate […] Non a caso, infatti, il rapporto con l’URSS costituì l’unico terreno su cui non esistette mai nel partito, una contrapposizione tra destra e sinistra, tra “duri” e “moderati”, tra riformisti e massimalisti>>. (10)

L’altro elemento che può spiegare la mancanza di vistose reazioni contrastanti la proposta di Togliatti, veniva dalla peculiare concezione del partito e dal modello politico organizzativo che ispirava le regole della sua vita interna. Nonostante la trasformazione del PCI, nell’immediato dopoguerra, in partito di massa, cioè, in organizzazione politica che, secondo una definizione di Amendola, si proponeva di <<aderire alle pieghe della società>>, tuttavia, l’organizzazione comunista mantenne sostanzialmente una struttura elitaria e autoreferente.

E’ stato ampiamente osservato, al di là delle loro posizioni politiche, nei dirigenti comunisti restava ferma la forzatura soggettivista, giacobino-leninista, che assegnava all’iniziativa del partito la sola responsabilità e il compito di trasformare la realtà. Occorre infatti considerare che Lenin, aveva posto il problema del partito politico marxista in maniera del tutto diversa rispetto al modello che si era affermato nei movimenti socialisti dell’Europa occidentale, proprio partendo da una critica radicale allo “spontaneismo” in quanto ritenuto inadeguato all’obiettivo del rovesciamento della società capitalistica.
Secondo la concezione “spontaneista”, il proletariato moderno, entra oggettivamente in contraddizione con i rapporti di produzione (capitalistici) che ne frenano lo sviluppo; la rivoluzione proletaria, quindi, non è che il punto terminale del processo di evoluzione e di sviluppo del capitalismo.
Lenin contrappose a questa concezione economicista e linearmente evoluzionista del processo storico che porta al socialismo, l’idea che non vi fosse un passaggio spontaneo dalla lotta economica e sindacale alla lotta politica (e, quindi, alla “coscienza di classe”) e che, il percorso da un livello ad un altro, non fosse né continuo, né lineare. La coscienza politica “di classe”, poteva essere portata solo dall’esterno della lotta economica e questa funzione non poteva che essere assolta dal partito rivoluzionario.

Coerente con questa concezione del partito era l’esigenza che <<l’organizzazione dei rivoluzionari deve comprendere prima di tutto e principalmente uomini la cui professione sia l’azione rivoluzionaria. […] Tale organizzazione necessariamente non deve essere molto estesa e deve essere quanto più clandestina è possibile>>. (11)

Quanto questa impostazione organizzativa venisse enfatizzata dalla situazione di clandestinità e dalla durezza della repressione poliziesca è comprensibile, com’è evidente che, in queste circostanze, i rapporti, all’interno del partito di Lenin, indipendentemente dalle concezioni soggettive, non erano conformi ai principi della partecipazione e della gestione democratica a tutti i livelli.
Lenin, dunque, da una certa teoria generale del partito, trasse un preciso sistema di principi organizzativi che concorsero a formare il cosiddetto <<centralismo democratico>>. Questi principi, reinterpretati più tardi nella forma centralizzatrice e oltre i confini del loro spirito originario, hanno comunque regolato la vita interna e la tradizione dei partiti comunisti lungo tutta la loro storia.
Nella vita interna e, quindi nel modo di essere dei partiti comunisti erano operanti due elementi che, indubbiamente, hanno maggiormente condizionato la loro vita interna. Innanzitutto, l’esistenza di un gruppo dirigente che veniva formandosi nel corso delle vicende storiche, attraverso il metodo della cooptazione, che funzionava come elemento di “sintesi” tra <<esperienza immediata della classe operaia>> e la tradizione rivoluzionaria. In secondo luogo, il fatto che la formazione della volontà politica collettiva avveniva attraverso un dibattito, ma che si svolgeva principalmente all’interno dei vari organismi di partito ed attraverso successive sintesi unitarie dall’alto verso il basso.

E’ evidente come questi meccanismi di vita interna, che avevano una ragion d’essere se applicati ad un partito di quadri, sia pur di grande livello intellettuale, che operava nella clandestinità, con una strategia orientata all’insurrezione e alla rapida conquista del potere quale era quello bolscevico, avrebbe portato a risultati profondamente diversi quando furono applicati a partiti che gestivano il potere statale (quale era quello staliniano) o a partiti di massa che agivano nella legalità, operavano sui grandi movimenti di riforma e adottava una strategia graduale e pacifica di transizione al socialismo (quale era quello italiano).

Togliatti si rese conto di questo fatto evidente ed anche del contesto storico-sociale in cui agiva il PCI all’indomani delle riacquistate libertà democratiche. La strategia togliattiana, non fu impostata in funzione della conquista del potere con un’azione risolutiva, ma mirò al <<radicamento nella società italiana, tale da renderne, se non impossibile, certo fortemente traumatica l’ipotesi di una sua espulsione o cancellazione dal nuovo sistema politico>> (12).
Si poneva la necessità, di strutturare l’organizzazione del partito in funzione della nuova realtà politica, ma con un’attenzione costante a non pregiudicarne il carattere e la natura stessa di partito giacobino-leninista, che assegnava solamente a se stesso la funzione di interpretare e trasformare la realtà.

La struttura interna del <<partito nuovo>> di Togliatti, più che una originale sintesi, fu, com’è stato osservato, <<un amalgama empirico>> (13) di svariate concezioni organizzative, sebbene tutte funzionali al progetto politico elaborato dal gruppo dirigente, nella nuova fase della vita politica italiana. Il PCI del dopoguerra si formò, quindi, con un’ambiguità di fondo, in quanto si trattava di rendere compatibili le caratteristiche di un partito di massa con le qualità di un partito di quadri.

Indubbiamente, però, fino a metà degli anni cinquanta, questa peculiarità ebbe un carattere positivo e dinamico nel processo di espansione e di radicamento del PCI nella società italiana. Protagonisti di questo processo furono proprio i <<rivoluzionari di professione>>, quei quadri, cioè, che forgiatisi nella lotta clandestina e durante la Resistenza, si trasformarono in funzionari spinti ancora dalla passione per l’organizzazione diretta delle masse e della protesta sociale.
Ma proprio per effetto di questa “diversità”, la formazione complessiva della linea politica nel PCI fu sempre un fatto complicato. Lo schema secondo cui la <<linea>> era stabilita dal Congresso ed attuata dal Comitato centrale fu, in gran parte, un fatto fittizio. Se era una realtà che le assise congressuali del partito comunista italiano rappresentassero sempre un momento di grande discussione e di consultazione degli iscritti, era pur vero che i confini della dialettica interna erano fissati in partenza dall’esistenza di un documento congressuale che già definiva la piattaforma da discutere, in quanto sintesi unitaria e finale presentata dal gruppo dirigente già prima di avviare il dibattito di base.

Le tesi congressuali erano quindi, il risultato di un accordo politico già realizzato a priori dall’intero vertice del partito, che venivano poi presentate agli iscritti come la <<linea>> che doveva essere <<difesa>> e <<applicata>>. Ciascuno, all’interno del suo organismo, o in una tribuna congressuale poteva esprimere un dissenso, ma il partito, come “macchina” e struttura era impegnato a sostenere la <<linea>>.
Era un meccanismo originato da un complesso di regole scritte e non scritte: ma la sua efficacia pratica era indubbia. Il momento congressuale era più una grande manifestazione politica che una sede in cui si confrontavano idee e si apportavano contributi alla discussione. La sua stessa composizione, l’ordinamento dei suoi lavori era tale da rendere assai limitate le scelte effettive che esso era chiamato a compiere. Il fatto che le tesi congressuali fossero il risultato di una mediazione di vertice e non un documento con più formulazioni che individuavano opzioni alternative lasciava spazio solo per <<accentuazioni>>, <<sottolineature>>. Ne è prova il fatto che mai un congresso del PCI ha minimamente modificato le scelte politiche che, prima ancora dell’inizio della discussione, il gruppo dirigente aveva effettuato.

Analogamente, il Comitato centrale, organo di quasi duecento persone, riunito quattro o cinque volte l’anno, per due giorni, su temi per lo più generali, difficilmente poteva operare come organo dirigente effettivo. Il principio di unità tra discussione e direzione era sostanzialmente lasciato in sospeso: di fatto esso era un organismo all’interno del quale si costituivano gli organismi effettivi di direzione (Ufficio politico, Direzione, Segreteria) che non operavano come organi esecutivi per la gestione operativa del partito ma come veri organi di direzione politica nel Comitato centrale e sul Comitato centrale.

Le scelte politiche fondamentali, dunque, erano compiute da un gruppo dirigente ristretto e dotato di un forte potere, che aveva tutti gli strumenti statutari e organizzativi per farle accettare dall’insieme del partito. Il diritto dei militanti di esprimere ad ogni livello il dissenso era più teorico che effettivo: costituivano voci, opinioni di cui si teneva conto, ma la possibilità che esse si coagulassero sino a correggere sostanzialmente le scelte già fatte era del tutto teorica.
Il limite al dispiegarsi della democrazia interna stava non tanto nei fattori soggettivi, nella carenza di discussione e di elaborazione dentro le strutture di partito, quanto nel fatto che la teoria e la pratica del centralismo democratico precludevano la possibilità di valutare e decidere tra proposte alternative sulle opzioni politiche che si affacciavano al dibattito.

Di Giancarlo Portas fonte@.storiologia.it/