Fulvio Abbate
Non rinnoverò, anzi, riconsegnerò la tessera dell’Anpi. D’ora in avanti coltiverò l’antifascismo e la memoria resistenziale lontano da ogni sigla, sigillo ufficiale, in assoluta solitudine, servendomi in modo pienamente autarchico degli strumenti che accompagnano la memoria storica e “civile” necessaria. In perfetta coscienza – perdonate l’insostenibile retorica – dei principi per nulla sindacabili di giustizia, libertà, e di rivolta. Possibilmente, poeticamente facendo ricorso alle invettive di Pier Paolo Pasolini, le stesse che vivono ormai nell’astuccio ideale dell’elegia politica, come i versi di “Vittoria”, scritti nel 1963, all’indomani del varo del primo governo di centrosinistra, quando un giornale titolò “Da oggi ognuno è più libero”, dove, immaginando i partigiani mentre lasciano le proprie tombe: “Vorrei vedere chi ha il coraggio di dirgli che l’ideale che arde segreto nei loro occhi è finito, appartiene ad altro tempo, che i figli dei loro fratelli da anni ormai non lottano più, e la storia crudelmente nuova, ha dato altri ideali, li ha quietamente corrotti…”. Le ragioni della scelta di riconsegnare la tessera, già manifestata qualche settimana fa, dopo le prime dichiarazioni sul conflitto russo-ucraino ai miei occhi non meno ambigue e discutibili, vengono ora sollecitate e rese definitive dalle dichiarazioni non meno irricevibili del presidente dell’Anpi, Gianfranco Pagliarulo, pronunciate a Riccione durante il congresso annuale dell’organizzazione. In nome di una propria legittima nozione di pacifismo, l’Anpi ritiene che non si debbano rinviare armi ai combattenti della resistenza ucraina, così infatti leggo: “La condanna dell’invasione è irrevocabile ma dobbiamo cercare di capire il contesto e le cause che hanno prodotto la situazione attuale”. E ancora: “non per giustificare ipocritamente l’intervento russo ma per porre all’ordine del giorno questioni capitali: nuovo ordine mondiale, sistema di difesa collettiva, cooperazione, coesistenza pacifica. Per questo è un errore minimizzare la recente storia ucraina, dalle formazioni naziste ucraine alla Crimea, al Donbass, alle interferenze russe, al ruolo di Ue, Nato e Stati Uniti. Sbaglia chi guarda l’albero ma non vede la foresta”. Nell’autobiografia, “Confesso che ho vissuto”, il poeta e diplomatico “comunista” cileno Neruda, con intento di stigmatizzare il poeta dell’Indicibile Rilke, così afferma: “In tempo di guerra parlare di alberi è un crimine”. Chi l’ha detto? Non è vero, anche nell’abisso di un rifugio dove ci si ripara dalle granate, è giusto sia coltivato l’incanto. L’albero e la foresta che personalmente vedo davanti a me, al di là d’ogni possibile-improbabile simmetria tra la resistenza italiana al nazifascismo e l’attuale lotta che degli ucraini contro gli invasori russi, mostra innanzitutto con chiarezza assoluta un popolo e uno stato sovrano aggrediti da un esercito criminale che si è reso nemico, così come è inequivocabilmente propria di un criminale di guerra la condotta politica e militare di Vladimir Putin. In questi casi, il proprio luogo è ora e sempre l’aggredito, anche con le armi, a maggior ragione se, come sempre più appare evidente, la resistenza ucraina appare già vittoriosa sull’infamia russa. Il pacifismo, sì, in questo caso è fuori contesto, il tema è la salvezza, dove le armi hanno un valore difensivo. Ogni altra opzione appare a me riverbero di una subcultura che certo segmento della sinistra ha coltivato nel tempo e che evidentemente ancora adesso ama coltivare, allo stesso modo di chi anni addietro assumeva come proprie le parti di un boia, Milosevic, perché chissà come vi ravvisava comunque l’eco familiare delle sue bandiere. Comprendo che ad alcuni il blu e il giallo ucraino possano sembrare un corpo cromatico estraneo, non è però il mio caso.
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