Alle Gallerie Estensi una mostra “pionieristica” sul pittore olandese che indaga gli anni di Roma fino al 1614, con nuove attribuzioni e la scoperta di opere del soggiorno milanese
Il giorno della presentazione a Modena dell’ultima impresa “pionieristica” di Gianni Papi, la mostra su Hendrick ter Brugghen e, in particolare, sulle opere chel’olandese dipinse in Italia nel periodo giovanile, Vittorio Sgarbi con insolita e puntuale moderazione, segno del rispetto che nutre verso lo storico dell’arte, oltre a ribadire la convinzione ormai di molti che Papi sia il nostro maggiore studioso di pittori in qualche modo legati alla rivoluzione di Caravaggio, lo ha definito uno “spostatore”. Detto altrimenti, sarebbe uno studioso che mette ordine nel catalogo di alcuni pittori che hanno trovato in tempi recenti una loro fisionomia, oppure a cui egli stesso ha dato un volto più preciso, colmando lacune, correggendo attribuzioni erronee e le date di una cronologia ancora incerta, valendosi per lo più dell’analisi stilistica. L’impresa maggiore di Papi fu nel 2002 l’attribuzione a Jusepe de Ribera di alcuni dipinti all’epoca assegnati al misterioso Maestro del Giudizio di Salomone, che lo storico spostò nel catalofo dello Spagnoletto trasformando l’orizzonte della pittura romana nel primo Seicento. L’impresa più recente, invece, è stata l’importante mostra su Cecco del Caravaggio alla Carrara di Bergamo nel primo semestre di quest’anno. Ora ter Brugghen (Dall’Olanda all’Italia sulle orme di Caravaggio, fino al 14 gennaio, catalogo Sagep).
La frequenza delle ultime sortire di Papi fa capire che lo studioso sta tirando le somme su alcuni artisti che ha studiato negli ultimi vent’anni e oltre, ancora senza un catalogo affidabile per attribuzioni e date. Tanto più che, come ricorda lo stesso Papi nel catalogo della mostra modenese, se per Cecco le fonti erano avare, nel caso di ter Brugghen sono quasi inesistenti o comunque insufficienti per fondare le stesse attribuzioni. Perché Modena e non Roma o Milano, le due città che segnano l’itinerario di andata e ritorno del pittore olandese nella sua città natale, Utrecht? Il caso del ter Brugghen “italiano” trovò una sua prima illuminazione, oltre un anno fa, nella mostra di studio allestita alle Gallerie Estensi di Modena a partire da un quadro presente nelle collezioni del Museo, ovvero il Santo che scrive (attribuito da Longhi a Giovanni Serodine), all’epoca fresco di restauro. Dal pittore ticinese, et pour cause, prendeva le mosse una mostra che non mi pento di aver definito, in quell’occasione, “strana”: Indagini intorno a Giovanni Serodine. 600-1630. I santi eremiti della Galleria Estense e della Certosa di Pavia. Si capiva già allora che il nome del grande pittore di Ascona era prossimo alla destituzione in favore di qualcun altro (ma Papi nella scheda ricorda che Argan, nella sua Storia dell’arte del 1970, aveva preso come esempio per Serodine proprio quel dipinto).
Se non Serodine, chi? Papi già nel 2022 aveva proposto ter Brugghen. Ed è da questa ipotesi che la mostra attuale è cresciuta fino a diventare la prima mostra dedicata all’olandese nei suoi anni italiani. Tredici opere, pressoché tutte di nuova attribuzione, alcune delle quali sul crinale che vede il pittore rientrare in Olanda passando da Milano, ma non un semplice transito, perché Papi ritiene che quando nel 1614 il pittore arrivò in città, si sia fermato abbastanza per eseguire alcune opere, fra cui quelle per la Certosa di Pavia, trovando l’aiuto di un pittore di vaglia che lo storico identifica con Giulio Cesare Procaccini (per esempio, come autore della testa nel San Giovanni Battista, uno dei sei dipinti del santi eremiti del deserto, con notevoli momenti pittorici nella pelliccia di cui è vestito, nella mano e nella testa del capro). Affiancano queste opere del pittore di Utrecht altre sei di Ribera, van Baburen, Van Honthorst, Procaccini e Serodine e tre di ter Brugghen del periodo olandese, tra cui la Vocazione di san Matteo che cita Caravaggio. Se nel 2022 si pensava di promuovere una giornata di studi sul Santo che scrive, identificato allora con san Gerolamo dai curatori Federico Fischetti ed Emmanuela Daffra, oggi ci troviamo davanti a una mostra intrigante, con Fischetti che rettifica la precedente ipotesi arrivando alla conclusione, seguendo la storia del dipinto, che con ogni probabilità il santo sia Agostino, a confronto col Sant’Agostino nello studio attribuito nel 2011 da Silvia Danesi Squarzina a Caravaggio ma da molti rifiutato (somaticamente però il quadro di Modena si distacca non poco da questo, in particolare nella folta capigliatura e per un’apparenza complessiva abbastanza rustica rispetto alla fierezza con cui il vescovo d’Ippona viene sempre rappresentato).
È chiaro che porre l’analisi stilistica come il discrimine attributivo è una decisione in parte dettata dalla carenza di materiali e documenti che consentano conferme alle intuizioni, e in parte dalla fiducia che si ripone sui propri mezzi conoscitivi. La mostra di ter Brugghen è proprio un caso da manuale che attesta le capacità intuitive di Papi ma ne mette a nudo anche gli azzardi. A un certo punto lo storico indica nelle mani un luogo tipico nel quale si può riconoscere l’impronta dell’olandese. Ma sono proprio le mani, come mi è capitato di dire allo stesso Papi, che fanno dubitare. Nel 2022 notai che se anche l’attribuzione a Serodine non deve essere del tutto abbandonata, in effetti il quadro manca di quel “naturalismo drammatico” che ricorre nel ticinese, in particolare nel rapporto con lo sfondo paesaggistico. E così le mani – Papi scrive: «costruite con tocchi diretti non impastati, senza disegno» – e le rughe sulla fronte quasi parlano un’altra lingua rispetto a quella di ter Brugghen, mentre anche gli effetti luministici sono attenuati rispetto ad altri quadri dell’olandese, come la Negazione di san Pietro o l’Adorazione dei pastori della collezione Spier di Londra, che sembrano invece tener conto delle ricerche formali di La Tour.
Interessante, invece, il riferimento per l’abito del Santo che scrive al mantello del San Giovanni evangelista di Deventer (non esposto). È chiaro che l’attribuzione, non disponendo di documenti inequivocabili, non è più soltanto l’esito di una visione oculare, ma deve analizzare lo stesso modo di dipingere (qui Papi insiste, per esempio, sulla tipica pennellata curvilinea, con un colore piuttosto denso), i riferimenti al contesto e ad altre personalità dell’epoca, la tela e i pigmenti. Insomma, l’occhio è il giudice ma alla sentenza si arriva soltanto con una disamina complessa sul quadro come “corpo” da sezionare nei modi convenienti. Lo spettatore deve fidarsi di Papi e della sua “ipersensibilità”, considerando che le opere sono quasi interamente assegnate a ter Brugghen a partire dal grado di comparabilità fra le stesse. L’elevata qualità pittorica del Ritratto di giovane uomo, in collezione parigina, forse trova analogie espressive nella testa del Battista sacrificato nel quadro di Salomè o nell’Incredulità di san Tommaso, ma è molto lontano da dipinti come la Derisione di Cristo di Lille, dall’Adorazione o dalla Negazione, come pure dall’altro ritratto, quello di Santo Stefano, dove le mani denotano anche una certa approssimazione pittorica.
Lo splendido San Giovanni evangelista della Galleria Sabauda, a sua volta, mostra una verità quasi fisica, che sembra tener conto dei contrappunti di materia e luce del Ribera. Attribuito nel 1941 a ter Brugghen da Isarlo, ricadde nel novero delle opere serodiniane con l’avvallo critico di Roberto Longhi. Così restò anche nella mostra del 2015 di Serodine curata da Agosti e Stoppa, del tutto contrari all’ipotesi di altra attribuzione. Ma in precedenza il nome di Ter Brugghen era riemerso più volte, a riprova che qualcosa spinge verso l’olandese nella percezione dell’opera. Tuttavia, non si tratta soltanto di una questione di esecuzione – «quelle identiche, implacabili, pennellate date con un pennello largo, usato con vigore e furia» – che hanno nell’effetto finale una resa abbastanza diversa sotto il profilo stilistico dai quadri presi a sostegno per l’attribuzione, ovvero la Negazione e l’Adorazione già citate. E in queste opere, l’esito è piuttosto diverso dal ter Brugghen che dialoga alla pari «con l’energia tellurica delle composizioni del Ribera romano, con la sua esecuzione furibonda e implacabile».
La virtuosa pittura di ter Brugghen, per quanto si possa ammirarla, non raggiunge mai la forza e la bellezza drammatica dello Spagnoletto, il quale, come si è notato, pittoricamente supera il maestro, vale a dire Caravaggio, sebbene questi lo surclassi per genio e intensità espressiva. È una questione sottile, che si può riassumere così: pittori come Velázquez o Rembrandt sono forse i più grandi di tutti i tempi sotto il profilo tecnico e pittorico, ma Caravaggio usa la sua “imperfezione” come una sorta di scorciatoia, per cogliere l’attimo che ne contrassegna il genio e soggioga l’arte. Si sarebbe tentati di credere che il senso di una mostra come questa stia nel ruolo di apripista rispetto a una precedente ricerca lacunosa o persino insufficiente. Tuttavia, ritengo decisiva un’osservazione di Papi che invita a superare la categoria “caravaggeschi” in quanto discepoli di un genio che non lasciò in senso proprio una schola, ma impresse una svolta al tempo della pittura in un allineamento zenitale con l’esistenza. Una meridiana che ha nell’uomo il suo stilo.
Papi scrive appunto che gli artisti che seguirono la novità del Merisi «mostrano decisamente una maggiore indipendenza da Caravaggio, mettendo a punto “naturalismi” che solo in parte – a livello compositivo e stilistico – dipendono dai capolavori, dai grandi testi del pittore lombardo… Nessuno replica esattamente le composizioni di Merisi, nessuno ne recupera le tipologie fisiognomiche. Ma ognuno delinea il proprio “naturalismo”». Dunque, d’ora in poi non chiamiamoli più “caravaggeschi”. Ecco una rivoluzione che potrà dare sul piano interpretativo risultati importanti nella scoperta o rivisitazione di autori fino a oggi schiacciati da un “luogo comune”, che ancora insidia questa mostra di ter Brugghen col sottotitolo che recita, per le solite logiche di marketing, «sulle orme di Caravaggio».
Di Maurizio Cecchetti – fonte: https://www.avvenire.it/