di Patrizia Orofino
Katya Maugeri, giornalista e scrittrice catanese, segue da otto anni la questione scottante della condizione carceraria in Italia. Nel suo libro: Tutte le cose che ho perso, racconta le testimonianze dirette delle detenute del carcere di Rebibbia e come la Maugeri dice:- “sono storie di donne detenute che, si raccontano con pudore, consapevolezza e voglia di dare voce al loro silenzio.”-
Noi, abbiamo raggiunto Katya Maugeri, la quale ci ha rilasciato dichiarazioni sull’argomento: carceri.
“Di carcere si continua a morire e questo accade perché vengono violati diritti imprescindibili. Fragilità tenute in ombra, disagi psicologici non seguiti e molto altro. L’approccio a queste storie, a queste fragilità dovrebbe essere quello di rispettare la finalità risocializzante e rieducativa della pena.
Il suicidio nelle carceri è un’emergenza che sembra non suscitare nessuna reazione.
Nei giorni scorsi un’altra donna si è tolta la vita nel carcere di Torino, nel reparto femminile di questo istituto nell’ultimo anno, tre si erano suicidate nell’estate del 2023. In poco più di quattro mesi, sono 35 le persone che si sono suicidate nelle carceri italiane. La donna si è soffocata con due sacchetti di plastica annodati intorno alla testa e alla gola. Non c’è più tempo e non c’è più spazio in carcere e servono azioni concrete per contrastare questa emergenza.
In “Tutte le cose che ho perso”, la cella nr 10 è dedicata proprio al suicidio in carcere. È il passo che tutti scelgono di voler leggere durante gli incontri, poiché descrive con crudezza la realtà di questo gesto.
“Là fuori è ancora buio. Con questo lenzuolo dall’odore ibrido preparo la mia via d’uscita. E non sono fragile, non ditelo! Sono solo stanca, quindi vado altrove perché io in quel “fuori”, non ci voglio entrare”.
È una sconfitta per la società, quella che dovrebbe considerarsi “civile”, umana e attenta. Invece, con indifferenza, guarda dal lato opposto: tanto queste cose accadono ai “cattivi” e noi siamo dall’altra parte del muro.
La funzione principale della detenzione dovrebbe essere quella di correggere il comportamento di chi ha commesso il reato, non attraverso la punizione, ma riabilitandolo e integrandolo socialmente.
È importante, pertanto, che durante questo percorso non vengano meno i propri diritti, il detenuto deve sì avere delle limitazioni necessarie per assicurare l’esecuzione della pena pur mantenendo la propria dignità. Si è, negli anni, sviluppata una coscienza dei diritti dei detenuti e della loro tutela, per cui il carcere non deve essere luogo di sopraffazione o di degradazione della personalità, ma luogo in cui persone scontano una pena legalmente inflitta.
All’interno delle carceri servirebbe un ambiente più umano, con una maggiore apertura nell’uso delle telefonate, per esempio, per i detenuti non soggetti a censura che, per garantire un rapporto costante con i propri famigliari, potrebbero costituire un utilissimo strumento per prevenire gesti autolesivi. L’isolamento fisico ed emotivo è sempre devastante per la psiche della persona. E la morte, in questi casi, viene vissuta come una liberazione.”
Poter avere avuto il privilegio, di far emergere come redazione le condizioni delle carceri, significa, non solo dare voce a chi grida nel vento, ma soprattutto provare a sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni.
Nella foto Katya Maugeri.