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Simona Molinari presenta “Petali”: “Chi ascolta vorrei si sentisse abbracciato”  

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AGI – La leggerezza, la raffinatezza, un disco di Simona Molinari è uno scrigno di sensazioni leggere e rinfrescanti. “Petali” è un album buono da ascoltare in macchina, mentre fuori brilla il sole e tu stai andando al mare; è un album buono da ascoltare mentre fuori diluvia, sei rimasto a casa con lei e provate una ricetta azzardata, sorseggiando un bel rosso, ancheggiando un po’ mentre quei ritmi pop jazzati vi accarezzano. Ma dietro questo disco, che in qualche modo devia la carriera della bravissima Simona Molinari verso terre più accessibili, c’è anche l’enorme forza di una donna che, pur con la delicatezza che la contraddistingue, combatte; l’intimità profonda e rarefatta di un’artista eccezionale. “Petali” è un album meraviglioso, proprio nella sua interezza, una boccata d’aria fresca in mezzo alla puzza di caccia alla visibilità di un mondo, quello della musica, sempre più aggressivo e malato.

L’ultimo disco tuo disco è del 2015, l’ultimo di inediti addirittura del 2013. Cosa è successo nel frattempo?

Dal 2015 ad oggi la cosa più importante che è successa è che sono diventata mamma. Contemporaneamente tutto il mondo che gira intorno alla musica è cambiato, un po’ io sono anche entrata in un momento di stasi generale insieme al mio entourage, e ad un certo punto ho deciso di alzarmi in piedi. Torno dopo otto anni dal mio ultimo disco di inediti e torno con tutti questi cambiamenti in modalità completamente diversa.

Sono anni in cui molto nella discografia italiana è cambiato, tu invece in cosa ti senti cambiata?

Ogni età ha i suoi perché, le motivazioni che ti portano, in generale, per tutti, a fare quello che fai, per me a fare musica. Il mio diventare mamma ha cambiato anche le mie motivazioni sul palco, che oggi sono completamente diverse. Se fino all’ultimo disco il mio intento era, si, di raccontare delle cose, magari nascondendole dietro la cifra stilistica della leggerezza, cercare di raccontare perlopiù le fasi dell’amore, cercare di far diventare pop il jazz; ad un certo punto il mio desiderio è cambiato, oggi voglio che quando qualcuno preme play su questi brani si senta in qualche modo accolto, abbracciato, un po’ meno solo. Meno mestiere, ma più un sentirmi un’unica cosa con chi ascolta.

Qual è l’urgenza artistica che ti ha spinto a scrivere questo disco?

L’urgenza, prima di tutto, è curare me stessa, la necessità di farlo, e poi, pensando a questi tempi, il mio desiderio era quello di raccontare questi cicli della vita, specialmente negli ultimi tre anni in cui il mondo si è fermato e ci siamo ritrovati più piccoli e impotenti, un po’ meno artefici dei nostri alti e bassi. Ci vogliono raccontare che dobbiamo essere sempre belli e performanti, invece la vita ha bisogno dei suoi alti e dei suoi bassi, dei suoi pieni e dei suoi vuoti, e ogni vuoto che si crea ci viene dato proprio perché possa essere riempito di nuova vita; la mia voglia era quella di raccontare questi momenti di vuoti e con la prospettiva di riempirli di cosa nuove.

Nel disco si percepisce la dimensione del racconto, ne parli bene e approfonditamente in “Un libro nuovo”…?

Ci tenevo perché il mio desiderio, tolte le sovrastrutture, tolte le leggi di mercato che ci portano a scegliere cose che magari non sono reali bisogni, o tolto tutta la realtà che viene raccontata attraverso i social, che non è la realtà che io incontro quando vado a fare la spesa, era quello di capire questo mondo nuovo che avanza in cui siamo tutti un pochino più soli. Sentiamo meno solitudine perché siamo sempre connessi ma siamo tutti sempre più soli. Un disco è come stendere un braccio affinché chi lo ascolta possa attaccarsi o semplicemente fare un pezzo di strada insieme a me.

Ti sei mai chiesta qual è l’effetto che vorresti che la tua musica avesse su chi ascolta?

Vorrei che chi ascolta possa sentirsi preso per mano. Non voglio che stia avanti né dietro, ma proprio accanto, in compagnia di qualcuno che prova le tue stesse sensazioni.

Mi chiedo spesso se la discografia italiana abbia ancora spazio per un genere di musica così raffinato, così ricercato…

Secondo me si, magari non fa comodo al mercato un genere come questo. Noi ogni giorno crediamo di scegliere le cose che vogliamo ascoltare o vedere, ma in realtà non siamo proprio così liberi, chi c’è dietro, dall’altra parte dello streaming, dei social, in qualche modo veicola il nostro sguardo. Però credo che una testa pensante, che ha un suo punto di vista sul mondo, abbia voglia di ascoltare un disco di questo tipo; quello che manca oggi è il tempo per un ascolto un po’ più approfondito, ma nel momento in cui hai bisogno di essere abbracciato io credo che te la vai a cercare la musica che ti abbraccia.

In classifica ci finisce sempre il disimpegno e si pensa che un disco fatto bene, da una artista che viene da un certo ambiente musicale, magari meno pop, sia di default noioso….

Io credo che i numeri si fanno con le persone che vanno dai 13 ai 23 anni, quindi credo che tutte le scelte che vengono fatte sono per quella fascia d’età. Perché hanno più tempo e sono più coinvolti dai capovolgimenti, dalle rivoluzioni, dalla fame, e si è anche più connessi l’uno con l’altro, c’è più scambio di brani. Quindi il mercato spinge molto quella fascia d’età oggi, perché riesce a raggiungerla direttamente tramite la rete ed è una fascia d’età più manipolabile. Io credo che il mercato semplicemente cerchi argomenti che possano interessare ad una fascia d’età giovane, in cui alcune riflessioni, alcuni argomenti vengono ritenuti più noiosi.

C’è qualcosa della nuova discografia che ti piace?

Mi piacciono alcuni artisti indie che sono usciti negli ultimi anni, come Levante; poi La Rappresentante di Lista mi piace molto, dei giovanissimi mi piace anche BLANCO. C’è anche Margherita Vicario, Serena Brancale, ognuno mi piace per qualcosa di diverso, chi per la musica, chi per i contenuti, però trovo che ci sia un sacco di vita in quello che sta uscendo. Poi magari nei miei ascolti mi trovo di più ascoltando Brunori SaS o Fulminacci, che mi piace tanto… In generale le cose che arrivano spontanee e vere mi piacciono tutte, perché sono coerenti e adesso più che mai c’è tanta sincerità, perché gli artisti non hanno sovrastrutture, le case discografiche ai tempi decidevano per te, mentre un ragazzo oggi è in grado di autoprodursi facilmente con un computer e andare subito incontro all’ascoltatore; ed è questa la cosa che ha rivoluzionato completamente tutto.

Ancora oggi si fa un gran parlare della difficoltà delle donne nella discografia italiana…

Si, è un problema antropologico, le donne per tutti i motivi che sappiamo, sono arrivate a poter fare alcune cose solo di recente; come scrivere da donne. Ti lancio questa cosa: una donna per arrivare a far si che una sua cosa venga presa in considerazione, che sia un libro, una canzone, qualsiasi cosa, deve passare per il giudizio di almeno 5/6 uomini, che devono comprenderla, ascoltarla, invitarla a cena (e questo è già un ostacolo), crederci, decidere di produrla e poi divulgarla. In questi passaggi è stato molto più facile che passasse il cantautore maschile; alle donne veniva detto: “Aspetta che ti faccio scrivere la canzone da Tizio, Caio e Sempronio”, quindi ci sono molte donne che hanno testi scritti da uomini. Ma se io sento cantare una donna io voglio sentire parlare dei suoi problemi, di quello che sta passando, di quello che vivo io, ma questo non è stato possibile fino a qualche anno fa.

Qual è stata la più grande difficoltà dell’essere una donna che fa musica?

Sicuramente presentandoti da donna è sempre stato difficile prima essere ascoltata e poi guardata. Oggi è più facile, c’è questa apertura fantastica, ma io ho vissuto esperienze difficili, tant’è che per essere presa in considerazione ho affidato la mia parola e la mia faccia a un uomo, anch’io l’ho fatto, per non ritrovarmi in situazioni spiacevoli; ad un certo punto mi sono chiusa in una cupola, una gabbia, e non parlavo con nessuno se non con questa persona, che mi rappresentava al mondo. Ma questo è un limite.

Oggi come oggi è difficile da credere…

Si, lo so che sembra fantascienza, ma parliamo di dieci anni fa. Di fatto, tutte le mie colleghe che sono uscite più o meno insieme a me parlano in un modo, chi è uscita dopo, finalmente, è più libera; ma ci sono cose che io non avrei potuto scrivere e dire apertamente. Io le ho nascoste nelle mie canzoni certe cose che volevo dire.

Negli ultimi due anni la musica è stata fortemente colpita dalle restrizioni dovute al Covid, ora che finalmente si ricomincia ti sei fatta un’idea più chiara della considerazione che le istituzioni hanno di te come lavoratrice dello spettacolo?

In effetti si, in Italia più che mai l’ambito dello spettacolo non smuove il Pil per cui è una cosa della quale si può fare a meno. Perché questa società al momento è incentrata sulla produttività e sul business e ci siamo dimenticati a cosa serve la cultura e secondo me la cultura serve a raccontare un periodo storico, a farne memoria attraverso delle scritture per capire cosa pensava la gente in quel determinato momento; e la memoria è una cosa fondamentale, proprio perché i cicli della vita servano ad evolvere.

Source: agi


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