Di Ivan Zazzeroni
Parto da un ricordo personale di Gian Paolo Ormezzano, morto ieri a 89 anni. Parto da lui perché era un fuoriclasse e perché per anni è stato una firma d’eccellenza (anche) del nostro Guerino, il periodico che ha formato intere generazioni di lettori e giornalisti non solo sportivi. Usa ’94, Orlando, fine giugno. Per questo giornale seguo il gruppo F di Olanda, Belgio, Marocco e Arabia Saudita. È l’Olanda di Koeman, De Boer, Winter, Bergkamp e Overmars. Arrivo in sala stampa, mi siedo accanto a Gian Paolo e assisto al miracolo della moltiplicazione dei pani ma non dei pesci (giornalistici): mentre sta scrivendo riceve una telefonata dall’Italia, risponde continuando a battere sui tasti un articolo bellissimo che invierà al termine della chiamata e nel frattempo saluta i colleghi con movimenti della testa. Il primo multitasking della storia del giornalismo. GpO un maestro, un artista, mai un vecchio trombone. E adesso passo a cose più terra terra: non vuole essere una battuta, anche se lui ne avrebbe sorriso. Ho trovato molto interessante l’intervista…
Parto da un ricordo personale di Gian Paolo Ormezzano, morto ieri a 89 anni. Parto da lui perché era un fuoriclasse e perché per anni è stato una firma d’eccellenza (anche) del nostro Guerino, il periodico che ha formato intere generazioni di lettori e giornalisti non solo sportivi. Usa ’94, Orlando, fine giugno. Per questo giornale seguo il gruppo F di Olanda, Belgio, Marocco e Arabia Saudita. È l’Olanda di Koeman, De Boer, Winter, Bergkamp e Overmars. Arrivo in sala stampa, mi siedo accanto a Gian Paolo e assisto al miracolo della moltiplicazione dei pani ma non dei pesci (giornalistici): mentre sta scrivendo riceve una telefonata dall’Italia, risponde continuando a battere sui tasti un articolo bellissimo che invierà al termine della chiamata e nel frattempo saluta i colleghi con movimenti della testa. Il primo multitasking della storia del giornalismo. GpO un maestro, un artista, mai un vecchio trombone.
E adesso passo a cose più terra terra: non vuole essere una battuta, anche se lui ne avrebbe sorriso. Ho trovato molto interessante l’intervista di Buccheri de la Stampa a Roberto Rosetti. Su alcune cose dette dal 57enne capo degli arbitri europei concordo, su altre assolutamente no.
Contesto: 1) «Il calcio vive di interpretazioni soggettive delle regole». La Var nasce proprio per correggerle, a volte non c’è riuscita perché è stata utilizzata… a pene di segugio. Soggettivamente.
2) «Sul tempo effettivo siamo molto lontani da una possibile introduzione. Non si sposa con i tempi del calcio». Meglio allora le partite da 53 minuti con 40, 42 di nulla.
3) «Siamo sicuri che se agli allenatori o ai capitani venisse concessa la possibilità di chiamare l’intervento Var due volte a partita, la fluidità del gioco non verrebbe intaccata? E se ci fosse un errore evidente a challenge terminati?».
E qui mi dilungo. Se si vuole riaffermare la centralità dell’arbitro come unico dominus della decisione basta lasciare alla tecnologia l’autonomo controllo delle situazioni oggettive e rimettere nella responsabilità dell’arbitro stesso ogni altra situazione di gioco – spiegò brillantemente il nostro Barbano mesi fa: non avrei potuto scriverlo meglio -.
In quanto protagonista della gara, l’arbitro ha il diritto-dovere di decidere, poiché le sue scelte sono una parte delle performance dello spettacolo sportivo. Il riesame di un’azione al Var va invece rimesso alla disponibilità dei portatori di interesse del risultato, cioè le squadre. Le quali possono pretendere, su richiesta dell’allenatore, un numero limitato, ma adeguato, di verifiche della decisione, a loro giudizio indebitamente assunta, o piuttosto indebitamente omessa, dall’arbitro.
Il challenge ha una finalità specifica: responsabilizzare le squadre a un uso corretto e non strumentale delle proteste, trasformando la contestazione in una parte della performance. Il più rilevante effetto sarà quello di porre fine al disgustoso spettacolo dei cascatori che, al primo contatto, si lasciano cadere tra grida di dolore.
L’attuale sistema incentiva la simulazione e umilia la lealtà sportiva, con un evidente danno di immagine per il calcio. La chiamata del Var a iniziativa di parte ribalta il paradigma, scoraggiando la simulazione, che danneggerebbe l’allenatore nella sua attività di discernimento. Ne guadagna l’agonismo, poiché gli attaccanti sono indotti a continuare l’azione. Il challenge va limitato a una chiamata per tempo, che viene bruciata se la verifica dell’arbitro rigetta la contestazione, altrimenti è attivabile una seconda volta. In tal modo l’intera condotta sul campo delle due squadre s’inquadra in una strategia di gestione della gara che ha nella sportività il suo faro. In un gioco in cui le regole hanno un fondamento interpretativo.
Il Var è stato fin qui adoperato per eliminare o ridurre al minimo l’errore. Il rischio è quello di trasferire sempre più peso dall’uomo all’occhio elettronico, depotenziando il ruolo dei protagonisti dello spettacolo. Quando le moderne tecnologie ci consentiranno di valutare anche l’entità del contatto in un contrasto di gioco, l’arbitro sarà – in questo schema – un inutile orpello, subalterno al sindacato di controllo e al giudizio della macchina.
Fonte: Corriere dello Sport – Stadio