DI ANDREA GRAZIOSI
La prima cosa da fare di fronte all’incontro che ha portato a Roma i leader di 25 paesi africani su 54, è apprezzare l’ampiezza e l’ambizione dell’iniziativa e ringraziare chi ci ha lavorato, cercando di imprimere una svolta nella giusta direzione alla nostra politica estera. Per l’europa e per l’italia guardare all’africa è infatti indispensabile per i motivi e le realtà su cui Federico Rampini richiama da tempo l’attenzione e a cui aggiungo solo un dato: quando sono nato, nel 1954, l’africa aveva meno della metà degli abitanti dell’europa; ne ha oggi quasi il doppio; dovrebbe averne quasi il triplo al momento della mia morte “statistica” alla fine degli anni Trenta, e più del sestuplo alla fine di questo secolo, quando anch’essa, e con lei il mondo, avrà toccato l’apice dello sviluppo e imboccato la strada di un velocissimo declino in cui l’europa l’ha preceduta di circa un secolo (è dal 1972 che la popolazione del nostro continente non riesce ad assicurare la sua riproduzione). Fatti i dovuti e sinceri complimenti, e comprese le ragioni per cui a questa coraggiosa iniziativa si è voluto dare il nome di “Piano Mattei” in ricordo dei nostri “gloriosi” anni Cinquanta, è opportuno fare anche alcune considerazioni nella speranza che servano a un suo migliore sviluppo. La prima è che quei gloriosi anni Cinquanta, semplicemente, non ci sono più.
E se è giusto rifarsi all’apertura e alla capacità di visione che portò Mattei a cogliere l’importanza della decolonizzazione e ad aprirsi a essa, sostenendola e sostenendo con ciò anche l’italia (e indirettamente la piccola Europa di cui facevamo parte), va capito e sempre ricordato che oggi chi ha bisogno di sostegno e di energia siamo prima di tutto noi. Certo, anche l’europa, e l’italia, hanno di che dare all’africa ed è giusto lo facciano, in un rapporto privo di sensi di superiorità e ricordi di passata protervia. Ma è in Africa che ci sono oggi la vita e l’energia che animavano l’italia e l’europa occidentale del “miracolo”. Quindi se di Mattei si possono coltivare il realismo, lo sguardo aperto e la volontà di collaborazione, queste tre virtù vanno calate nella situazione odierna, segnata da un veloce ribaltamento dei rapporti di forza: non siamo più solo e tanto noi che aiutiamo loro a crescere, giovandocene, ma sono loro che crescendo possono aiutare noi, traendo da ciò, come facemmo noi allora, dei benefici.
Per capirlo occorre non solo guardare alla realtà ma accettare di farci i conti, e non è facile, nemmeno per le persone migliori. Quando mia madre, una donna di straordinaria energia e talento, cominciò a stare male e le dovetti portare una carrozzella, mi aggredì cercando di picchiarmi, con amore, come se fossi stato un bambino incapace di ragionare. E ci sono persone di una età avanzata che rifiutano il bastone perché “mi fa sembrar vecchio”, salvo poi cadere. E’ la stessa mentalità, fondata sul rifiuto della vita come inevitabile fluire e passaggio attraverso stagioni che conducono alla morte, che ci porta a emarginare i nostri giovani, giovani che purtroppo talvolta rispondono autoghettizzandosi (non è per me un caso che durante il Covid un’italia dominata dagli anziani abbia imposto ai giovani chiusure più dure e più lunghe di altri paesi europei).
Nel caso specifico, questa incapacità di fare i conti con la realtà è alla radice della retorica dell’“aiutiamoli a casa loro per non farli venire qui”, una retorica che è purtroppo riecheggiata anche attorno al Piano Mattei, e che è sbagliata non solo e non tanto perché totalmente irrealistica nei suoi dati di partenza, ma soprattutto perché, nelle condizioni attuali, siamo noi ad avere bisogno dell’aiuto altrui.
Certo, anche noi abbiamo cose che possiamo dare, e come Mattei poteva aiutare i paesi di nuova indipendenza facendo gli interessi dell’italia, possiamo e dobbiamo immaginare cosa offrire all’africa per aiutarla e convincerla ad aiutarci: ricerca, tecnologia, formazione, certo, ma anche un sapere che includa quello stile e quel modo di vita che l’italia ha sviluppato e che sarebbe un peccato non comunicare. Tutto ciò facendo il maggior spazio possibile ai nostri giovani, aiutandoli ad aprirsi e avere un ruolo chiave in questa apertura, verso l’africa e non solo. Quest’ultima può ripagarci offrendoci parte della sua enorme vitalità ed energia dei prossimi decenni, ma anche il suo sapere, compreso quello politico: per fare un solo esempio, l’africa, i cui stati riuniscono spesso decine di popoli e di lingue, ha accumulato nella gestione di queste differenze un’esperienza unica che potrebbe essere preziosa per l’unione europea, a sua volta confederazione plurietnica di tipo molto particolare.
Per fare ciò, e stabilire dei rapporti proficui per l’italia, l’europa e l’africa, occorre in primo luogo e soprattutto fare i conti con le due visioni profondamente sbagliate che affliggono i nostri due principali schieramenti politici, e sono condivise da buona parte degli italiani. Sono, quelle che seguono, considerazioni che non valgono solo per i nostri rapporti (ma anche per quelli dell’unione europea) con l’africa. Se si guarda a essa, tuttavia, esse acquistano – o almeno lo spero – una forza e una chiarezza maggiori.
La prima di queste due visioni è migliore della seconda, perché aperta in fondo alla vita, ma contribuisce a ingigantire i problemi di per sé già enormi che minano la sopravvivenza della nostra liberaldemocrazia. Essa si basa sul ricordo di un mondo che non c’è più e ne esprime in un certo senso il rimpianto: noi siamo in fondo ancora bianchi ricchi e potenti che aiutano “poverini” che hanno bisogno di noi e di cui dobbiamo prenderci cura. Tutto quello che succede nel mondo è in qualche modo la conseguenza delle nostre colpe, delle nostre dimenticanze, e dei nostri meriti. L’idea che gli altri siano agenti indipendenti, dotati di autonomia, capacità di azione e decisione, e quindi anche di far male o far bene “da soli”, anche se magari accettata a parole, è di fatto rifiutata.
L’altra è quella di chi pensa che aprirsi sia un errore che mina la nostra sopravvivenza come popolo. Le teorie della “sostituzione” ne costituiscono una caricatura estrema e grottesca, ma anche le sue forme più benigne sono cieche e potenzialmente suicide: in un paese e in un continente che hanno perso da 50 anni la capacità di riprodursi, chiudersi equivale al suicidio, non solo fisico ma anche culturale di popolazioni che non hanno da decenni una spinta propulsiva interna. E la risposta, almeno sul breve-medio periodo, non sta nell’aumento della natalità, che pure va sistematicamente perseguito: questo semplicemente perché – come dimostra l’esempio francese, il più antico, il più sofisticato, e forse il più finanziato, cui dovremmo di sicuro guardare – malgrado sforzi enormi che non è semplice replicare il risultato è significativo ma comunque insufficiente.
L’immigrazione è a questo proposito il caso al tempo stesso più significativo ed esemplare. Secondo i calcoli della Ragioneria dello stato (calcoli temo ottimistici considerate alcune delle previsioni su cui sono basate), l’italia (e l’europa con noi) avrà nei prossimi decenni bisogno di milioni di veri immigrati solo per tamponare i problemi del suo sistema previdenziale e assistenziale, ma anche – aggiungerei – per evitare il deperimento non solo di piccoli paesi ma anche di centri abitati di una certa rilevanza, di intere aree geografiche, nonché del patrimonio immobiliare dei suoi abitanti
Le scienze sociali e l’esperienza politica ci insegnano che passata una certa soglia, questa immigrazione crea problemi seri, innesca paure e timori, sposta preferenze elettorali ecc. Abbiamo anche imparato che il livello di questa soglia è mutevole, e dipende per esempio dall’età media della popolazione nativa e dal “livello di differenza” tra gli immigrati e i nativi: al crescere di queste grandezze si abbassa la soglia che fa scattare la reazione e cresce l’intensità di quest’ultima. Paesi giovani, neri e islamici assorbiranno meglio immigrati neri e islamici, e magari parlanti lingue di ceppo comune, come una Francia già ridée ma più giovane di oggi ha assorbito meglio nel passato spagnoli, portoghesi e italiani bianchi, latini e cattolici.
Se le previsioni della Ragioneria dello stato, anche nella loro versione ottimistica, sono vere, dobbiamo prepararci ad accogliere milioni di diversi, specie anche se non solo dall’africa, e se è vero quel che sappiamo della popolazione italiana, più anziana e più fragile anche di soli dieci o venti anni fa, l’impatto sarà molto forte. Se di carrozzella e bastone non possiamo fare a meno, è ragionevole cercare di far sì che essi siano i migliori e più funzionali possibili, nonché quelli che creano la minore irritazione a chi li usa. Come avviene di regola, chi ha bisogno di aiuto deve insomma scegliere da chi farsi aiutare, e deve capire cosa può e deve (e generosamente) offrire a chi lo aiuterà.
Per rendere più sofisticata la giustissima iniziativa africana dovremmo quindi abbandonare entrambe le visioni di cui dicevo e, per restare nel campo cruciale dell’immigrazione, che è destinata a diventare – volenti o nolenti – un aspetto chiave di quell’iniziativa, spingere l’unione europea a creare un’agenzia europea che studi esperienze, necessità e soluzioni e proponga le migliori politiche di immigrazione possibili. Nell’attesa che l’unione ne capisca l’esigenza, dovremmo fare noi da battistrada, riflettendo su quale possa essere la politica migliore, abbandonando l’illusione che il problema sia la gestione più o meno temporanea di flussi migratori attraverso il ministero dell’interno. Un grande africanista mi diceva per esempio che non è saggio puntare su chi viene da paesi con lunghe tradizioni di violenti conflitti civili: oltre alle “distanze” culturali, religiose e linguistiche contano infatti le culture.
La chiave resta comunque rovesciare la prospettiva e smettere di vedere il presente con gli occhi e la psicologia del passato, rendendosi anche così più accetti a chi in quel passato abbiamo dominato, non lasciando spesso un buon ricordo.
Fonte: Il Riformista