Massimo Adinolfi
Difficile dire cosa sia l’Europa per l’elettore italiano: per cosa voterà, a giugno? Per il sostegno all’Ucraina e un esercito europeo? Per nuove politiche di bilancio e un’intesa sul debito comune? Per un rinnovato impulso in tema di green economy? Per sostenere o per respingere l’accordo raggiunto sulle politiche di accoglienza? Non si sa. I primi a non saperlo sono proprio gli elettori. Di qui all’appuntamento elettorale mancano ancora un paio di mesi, ma che l’agenda della politica italiana si sposti su queste tematiche è improbabile. Nonostante siano, con tutta evidenza, cruciali per le nostre vite e per il nostro futuro.
Nel centrosinistra, tutto gira in queste settimane intorno alla sempiterna questione morale. È la questione morale che definisce, agli occhi dell’opinione pubblica, l’identità dei partiti, non le posizioni assunte in politica estera, oppure il giudizio dato sul nuovo patto in materia di asilo e migrazione. Eppure, Pd e Cinque Stelle, cioè i due principali coltivatori del fantomatico Campo Largo, su questi argomenti hanno linee parecchio divergenti. Il Pd, ad esempio, si riconosce in una posizione tradizionalmente atlantista; Giuseppe Conte liscia volentieri il pelo ai pacifismi nostrani.
Oppure: il Pd lamenta una compressione dei diritti dei migranti a seguito del nuovo regolamento adottato, mentre Conte – in linea con i decreti sicurezza del primo governo giallo-verde, da lui presieduto – è preoccupato piuttosto perché l’Italia rimarrebbe ancora da sola, come paese di primo approdo, di fronte ai flussi migratori. Cani e gatti, insomma. Ma Conte graffia sulla questione morale, sull’azzeramento della giunta pugliese, su cacicchi e capibastone, mentre dal Pd abbaiano contro la slealtà dell’alleato, gli ricordano il suo personale trasformismo, e intanto provano a giocare pure loro, con pari determinazione, la carta del repulisti. Una gara, in altre parole, a mostrarsi credibili e rigorosi non sui temi della pace e della guerra, sulla politica economica o sui nuovi diritti, ma su chi prende prima e meglio le distanze dalle ultime inchieste agli onori della cronaca. Il centrodestra starebbe messo meglio, in realtà. Da quelle parti, quando piovono le tegole giudiziarie è buona norma scansarsi tutti insieme, senza cercare di approfittare gli uni degli inquisiti degli altri. Ma lì pesa il fattore Orban, inteso come il termine di paragone che misura la maggiore o minore distanza da Bruxelles e dalle prospettive di stare dentro un accordo di governo nel prossimo Parlamento europeo. Sull’Ucraina non si può stare con il premier magiaro, che costringe l’Unione a sfiancanti trattative ogniqualvolta c’è da votare un pacchetto di aiuti a Kiev, ma se si tratta invece delle politiche green, oppure della risoluzione sul diritto all’aborto da inserire nei trattati, l’Italia di Meloni e Salvini si ritrova in un battibaleno a fianco dell’Ungheria (senza che si registrino significativi distinguo neppure in Forza Italia, questa volta). Ma se il discorso cade invece sul futuro presidente della Commissione, le strade tornano a divergere: Tajani e Meloni sono pronti a lavorare a un’intesa fra i rispettivi gruppi (popolari e conservatori), mentre Salvini si chiama fuori da ogni possibile “inciucio”. Ma, al di là delle specifiche posizioni su questa o quella partita che si gioca a Bruxelles, nessuno sembra disposto a costruire un pezzo della propria identità politica sul progetto europeo, né tantomeno ad appassionarsi e ad appassionare gli elettori sui temi della difesa europea, del bilancio europeo, dell’agenda digitale comune, delle politiche energetiche: vuoi metterle a confronto con i nuovi assetti in Rai o con la prossima tornata di elezioni locali, con le disavventure giudiziarie o con il fascismo e l’antifascismo? La controprova di questa sostanziale impermeabilità ai temi europei è la velocità con cui è cresciuta e si è poi sgonfiata la retorica antieuropeista. Un’infezione, una febbre improvvisa, che è andata via senza postumi (fino alla prossima fiammata). C’è stato il Covid, Next Generation Ue, poi l’invasione dell’Ucraina: di spazio per i discorsi sull’uscita dall’Europa non ce n’è più stato, evidentemente. E così questa è la prima tornata elettorale in cui nessuno innalza la bandiera dell’opposizione all’euro, o quella dell’Europa delle piccole patrie. Ma nessuno ha pagato dazio; nessuno si è giocato o ha perso la propria credibilità per essere stato – non nel secolo scorso ma nella scorsa legislatura – fieramente avversario/a di Bruxelles, degli euroburocrati, e pure dell’area Schengen. Da ciò si possono trarre due conclusioni di segno diametralmente opposto, in realtà. La prima. Se dell’Europa si può dire tutto e il suo contrario, e persino non dir nulla, tuffandosi piuttosto, e con molta maggiore foga, nelle piccole e grandi beghe della politica nostrana, è lecito concludere che dell’Europa non frega gran che a nessuno. Non, certamente, a chi voterà pensando ai Gallo e ai Pisicchio, oppure ai Pozzolo e alle Santanché. Ma, seconda conclusione, è possibile anche dedurre, tutto al contrario, che l’Europa dimostra proprio per ciò di essere più forte e più resistente di tutte le campagne populiste che prendono la scena per una stagione soltanto, perché ha dalla sua una ragione storica formidabile: senza di essa, non si va da nessuna parte. Probabilmente sono vere tutte e due le cose, contemporaneamente: che l’Europa è qui per restare, e che preferiamo, purtroppo, non farci davvero i conti. E ora, cos’altro aspettarci da aprile, il più crudele dei mesi?
Fonte: Il Riformista