Gli autori smentiscono l’uso da parte del settore del rapporto “Fish-in-Fish-out” (FIFO), la metrica standard utilizzata per quantificare la quantità di pesce selvatico utilizzata per produrre pesce d’allevamento. Il rapporto FIFO è spesso considerato un indicatore dell’impatto dell’acquacoltura sugli stock ittici selvatici. Nel documento, gli autori evidenziano diverse pratiche fuorvianti sul rapporto FIFO, come la media degli input di farina di pesce e olio di pesce di carnivori ed erbivori insieme per nascondere gli elevati requisiti di alimentazione delle specie carnivore. Ciò sottostima alcuni parametri e porta erroneamente alla conclusione che la dipendenza da olio e farina di pesce stia diminuendo. In realtà, sostengono i ricercatori, l’olio di pesce rappresenta una merce sempre più richiesta dagli allevamenti di salmone, che forniscono il 70 per cento di tutto il salmone consumato a livello globale. Nel 2020, il solo salmone atlantico d’allevamento rappresentava il 60 per cento dell’utilizzo di olio di pesce. “L’industria del salmone – spiegano gli autori – non è un sistema di produzione alimentare, ma piuttosto un processo di riduzione del cibo. Beneficia i pochi che possono permetterselo, ma riduce l’accesso a pesce nutriente per coloro che ne hanno più bisogno”. Ad esempio, gli impianti di lavorazione nell’Africa occidentale stanno sfruttando grandi quantità di piccoli pesci pelagici, altamente nutrienti, per produrre farina e olio di pesce da destinare all’esportazione. “Si tratta di una questione di equità – commenta Skerritt – i pescivendoli locali si trovano in una posizione svantaggiosa perché non possono competere con i prezzi degli impianti”. Allo stesso tempo, il team sottolinea che il cambiamento climatico sta avendo un impatto notevole sulle popolazioni ittiche, e la cattiva gestione delle pratiche di itticoltura potrebbe portare a notevoli problemi nel prossimo futuro. “Questi fattori – conclude Majluf – stanno spingendo i produttori di mangimi a cercare altrove olio aggiuntivo, anche nelle attività di pesca che in genere forniscono pesce per il consumo umano diretto, come lo sgombro. Esortiamo pertanto l’industria a rendere operativi sostituti della farina e dell’olio di pesce nei mangimi destinati all’acquacoltura”. La crescente dipendenza da salmone di allevamento potrebbe mettere a repentaglio la possibilità di pescare e commercializzare le controparti selvatiche a livello locale. Questo allarmante risultato emerge da uno studio, pubblicato sulla rivista Science Advances, condotto dagli scienziati del Center for Environmental Sustainability presso la Cayetano Heredia University, di Oceana, un’organizzazione no-profit per la conservazione degli oceani e di Sea Around Us, un’iniziativa di ricerca internazionale presso l’Università della British Columbia. Il team, guidato da Kathryn Matthews, Patricia Majluf, Daniel Pauly, Daniel Skerritt e Maria Lourdes D. Palomares, ha valutato l’impatto della crescente dipendenza dal salmone di allevamento a scapito della commercializzazione delle controparti selvatiche. Nonostante le affermazioni contrarie del settore, queste scoperte evidenziano come la crescente domanda per il costoso salmone d’allevamento possa lasciare le comunità costiere in difficoltà nell’accesso a pesce locale a prezzi accessibili come sardine e acciughe. Questi piccoli pesci pelagici vengono spesso catturati, lavorati e commercializzati come sottoprodotti, ad esempio farina e olio di pesce, spesso impiegati per nutrire i pesci dell’allevamento. Le riduzioni della pesca, rivelano gli scienziati, costituiscono il 26 per cento del pescato oceanico globale. “Man mano che l’industria dell’acquacoltura cresce – osserva Matthews – aumenta anche la dipendenza dal pesce selvatico. La continua e rapida espansione del settore richiederà sempre più farina e olio di pesce, anche se il suo utilizzo nei mangimi diventa più efficiente”. (AGI)