Type to search

Share

 

Di Sylvie Coyaud

Fonte @enciclopediadelledonne

Sul letto di morte, seppe che attorno alla sua villa la folla si accalcava da una settimana e disse “li farò aspettare, mi hanno torturata tutta la vita, adesso li torturo io”. Grati, in mezzo milione i parigini accompagnarono la “voce d’oro”, “la divina”, “la scandalosa”, il “mostro sacro” come l’aveva battezzata Jean Cocteau, fino al cimitero del Père Lachaise, all’altro capo della città. Fu l’ultimo spettacolo e non aveva potuto metterlo in scena: voleva essere seppellita a Belle-Ile, di fronte al mare come Chateaubriand.

Della sua vita pubblica si sa tutto, di quella privata quanto ne ha scritto in Ma double vie: “un turbine di passioni e avventure, alluvioni di lacrime, uragani di rabbia, malattie mortali e una salute e un’energia senza pari” nel sunto di un necrologio inglese. Affabulatrice geniale, secondo Alexandre Dumas figlio di cui interpretava La dama delle camelie: “mente così tanto che potrebbe essere grassa”.

All’anagrafe è la terza delle quattro figlie di padre ignoto e di Judith Julie, nota alla polizia come la demi-mondaine Youle, forse tedesca o forse olandese e detta Bernhardt dal “nome di battaglia” dell’amante Edouard de Thérard. Nelle sue memorie, il padre è un avvenente ufficiale di marina trattenuto in Cina e la bellissima madre la trascura. Questo particolare dev’essere vero; Judith affida a una balia in Bretagna la neonata, che fino otto anno parlerà solo un dialetto bretone, poi alla sorella, cocotte di rango più elevato che non sa che farne e la mette in un pensionato di suore dove, dopo crisi mistiche, la ragazzina si converte al cattolicesimo.

Il duca di Morny, fratellastro di Napoleone III e amante della zia e poi della madre, provvede alla sua educazione: corsi di pittura e scultura all’Ecole des Beaux Arts (ne esce con il secondo premio), ma in convento interpreta un angelo in una recita e decide che da grande sarà Rachel, l’altra tragédienne dell’Ottocento. Morny la fa entrare al Conservatoire e da lì alla Comédie Française. In realtà, la madre le ha già insegnato a recitare. Come le sorelle e sempre secondo la polizia, da quando ha quattordici o quindici anni, viene “servita” alle cene di ricchi signori che, se titolati, possono restituirla solo l’indomani. Sarah ne fa i propri “azionisti”: quando viene espulsa dalla Comédie per aver schiaffeggiato un’attrice che aveva schiaffeggiato la sua sorellina, le assicurano di che acquistare, dopo due anni di attività, un appartamento vicino alla place Vendôme, dove riceve in un vasto salotto tappezzato di raso bianco.

Colleziona artisti, scrittori, generali, il principe di Galles, regnanti di passaggio, uomini politici. La polizia del secondo Impero prende nota soprattutto di ministri e deputati dell’opposizione, senza riuscire ad attribuire a uno di essi il figlio Maurice, forse concepito con il principe belga Eugène de Ligne. Lei elenca anche i suoi primi attori, ricevuti in camerino. Tra loro uno si scusa di non averne risvegliato i sensi e lei lo consola scrivendogli di essere “una persona incompleta… Sono altrettanto insoddisfatta il mattino dopo della sera prima”. Cortesia? L’ammissione di non aver recitato bene? La pittrice Louise Abbéma, con la quale ha una liaison mentre posa per successivi ritratti, propende per la seconda ipotesi. Qualche insoddisfazione sarà rimasta se a quarantaquattro anni, in tournée a Londra, Sarah sposa Aristides Damala, un greco di ventisette anni, morfinomane, che la insulta dalla platea e la chiama “l’ebrea dal naso lungo”. Crede di essere un attore, è solo l’ispiratore del conte Dracula, ma lei ne paga i debiti anche quando sono separati e deve vendere i gioielli. Rimane vedova nel 1889 quando Aristides muore di overdose.

Tutto questo in pubblico, così come i dissidi con il conformista Maurice, la trasformazione del Teatro Sarah Bernhardt – oggi Théâtre de la Ville – in ospedale per i feriti della guerra franco-prussiana del 1870, le prese di posizione a favore di Louise Michel e dei deportati dopo la Comune di Parigi.
Nel frattempo commissiona opere, Salomé, di Oscar Wilde, L’Aiglon di Edmond Rostand, una traduzione dell’Amleto, ne scrive qualcuna, mette in scena e recita, recita, recita. Il protagonista maschile o femminile, o entrambi: Shylock e Portia nel Mercante di Venezia. Shylock e Portia, la Samaritana di Edmond Rostand e Giovanna d’Arco.

Cristiana e atea, patriota, ma innanzitutto ebrea, ed errante. L’amore per i viaggi, dice, le viene “dall’amato sangue di Israele” perciò difende per anni il colonnello Dreyfus contro il figlio, gli “azionisti”, i colleghi antisemiti. Viaggia anche per conquista e necessità. Con sistematica stravaganza pianifica tournées da solista in tutto il mondo (salvo l’Antartide); come fossero campagne militari, requisisce interi treni e piani sui transatlantici per il suo seguito e tonnellate di bagagli. Amputata dopo un incidente nell’ultimo atto di Tosca, con la protesi di legno calca ancora i palcoscenici di teatri lirici imperiali e music-hall popolari, declama in francese e fa piangere le platee, qualunque lingua parlino.

È inneggiata dal Canada alla Patagonia, come aveva previsto Henry James: “Lei ha nel grado supremo quello che i francesi chiamano le génie de la réclame… È troppo americana per non aver successo in America”.

Nel 1886 è di nuovo sull’orlo della bancarotta, ma nel corso di un anno americano vende la propria immagine per la pubblicità di saponi, biciclette, farmaci; oltre che in contanti è pagata in natura, gemme, oro, guano, cinquemila ettari di pampa argentina. L’immagine è firmata Alfons Mucha, requisito anch’egli insieme ad architetti, scultori, gioiellieri, sarti e altri pittori che grazie alla sua réclame lanciano l’Art nouveau e allungano con curve sinuose il suo metro e mezzo.

Brutta per i canoni del tempo, bella o ironica come certe donne oggi nelle foto di Nadar, ha una cantilena monotona alle nostre orecchie e gesti da pantomima nei brevi film girati quand’era anziana. Vien da pensare con George Bernard Shaw e i critici del dopoguerra che fosse ridicola, piccolo manichino sotto cappelli immensi, pellicce, uniformi da operetta, merletti, strascichi e drapés, “museo ambulante” con leopardo al guinzaglio e zoo in giardino. Forse. Di sicuro ha “presenza” e milioni di spettatori in lacrime davanti alle passioni che incarna e per i quali Sarah, non Fedra, desidera il figliastro fino a morirne. Nelle lezioni raccolte nell’Art du théâtre, insegna il realismo. Lo costruisce, a sua misura e dismisura, con un rigore che dispera i suoi contabili.

Forma i propri tecnici delle luci, fa realizzare a partire dai suoi bozzetti – e buttare via – costumi, fondali, mobili, tende, tappeti finché l’illusione è perfetta. Quando sale sul palco, scrive: “l’attore lascia in camerino la sua personalità, spoglia l’anima dalle sue sensazioni… non può dividersi tra sé e il proprio ruolo; finché resta in scena perde il suo io”. Crederle? Nel 1899 era stata la prima ad abolire il suggeritore. Una volta ai suoi piedi, il pubblico la cui attesa la torturava era finalmente suo, e nessuno doveva intromettersi nella loro storia d’amore.