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Salviamo la sanità pubblica

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di Antonello Longo

direttore@quotidianocontribuenti.com

La pandemia mette in piena luce limiti e insufficienze tanto della programmazione nazionale che della gestione regionale del sistema sanitario. Mancano posti letto in terapia intensiva, medici, personale infermieristico. Manca, soprattutto, una valida rete territoriale di assistenza e prevenzione.
La cittadinanza vede negli ospedali, soprattutto nel pronto soccorso, luoghi pericolosi, potenziali centri di diffusione del contagio, così si fa sempre meno ricorso alle cure necessarie per tutte le patologie diverse dal Covid 19, che sono pur sempre la maggior parte delle malattie che minano la salute e la vita degli italiani.
Non si tratta solo di un’impressione, di fatto le strutture sanitarie vengono orientate all’emergenza del momento, ridimensionando, dove più dove meno, gli altri reparti, le cure dovute agli altri ammalati.
Anche la fama di efficienza e di eccellenza della sanità lombarda e, in genere, del settentrione rispetto alle regioni del Mezzogiorno si sgretola di fronte alle dure repliche del Coronavirus, specialmente per quanto riguarda la dimensione territoriale del servizio.
Perché assistiamo a questa impreparazione di fondo, a difetti strutturali così radicati e perduranti? Una risposta meditata richiede di partire da lontano, dalle ricadute sociali delle annose politiche di austerità e ristrettezze di bilancio, in dieci anni sono stati tagliati 37 milioni di euro, tagli che, nel campo dell’assistenza sanitaria, si rivelano particolarmente odiosi e discriminanti, dando sempre più spazio alle convenzioni con strutture private ed al ricorso diretto (e costoso) da parte dei cittadini alla sanità privata. Una parte non lieve, a mio parere, di responsabilità va attribuita anche alla riforma universitaria che ha introdotto il “numero chiuso” per l’iscrizione alle facoltà di medicina, determinando quella mancanza di medici che adesso, nel,’emergenza, costringe a richiamare i pensionati ed a far arrivare i medici da Cuba.
Da considerare, poi, è il modo nel quale la politica ha messo le mani, nel tempo, sulla sanità. I più anziani ricorderanno che, in principio, il sistema era quello delle
mutue, cioè di un’assistenza di tipo assicurativo che mostrava caratteristiche di spiccata insufficienza e sacche di intollerabile spreco.
La svolta si ebbe nel 1978, all’epoca del centro-sinistra, nella tanto deprecata prima Repubblica, con la creazione del Sistema Sanitario Nazionale. Si passò allora ad un’assistenza sanitaria universalistica e gratuita la quale, nel tempo, non mancò di mostrare, con i segni dell’inefficienza e della malversazione, quelli dell’insostenibilità dal punto di vista del finanziamento da parte dello Stato.
Per far fronte a questi problemi, nel 1992, il SSN venne smantellato introducendo un nuovo assetto, fondato sull’orientamento al “mercato” (della salute!) con la conseguente “aziendalizzazione” degli ospedali. Furono introdotti i dipartimenti e assegnata alle regioni la responsabilità della gestione del sistema.
In quanto “aziende” le nuove Unità Sanitarie Locali acquisirono personalità giuridica, con la rappresentanza legale e il potere gestionale nelle mani di un direttore generale nominato dal presidente della regione, con accanto un direttore sanitario e un direttore amministrativo, e il controllo contabile di un collegio dei revisori.
Fu in quell’occasione che venne prevista l’intramoenia per l’esercizio in ospedale della libera professione dei medici, per cui il 10% circa delle camere poterono disporre di servizi aggiuntivi a pagamento da parte dei pazienti.
Ma il cuore della riforma (legge 502 del 30 dicembre 1992) fu la delega diretta alle regioni a sostenere economicamente le USL. Da quel momento le regioni non poterono più rivolgersi allo Stato per ripianare i propri disavanzi nella gestione della sanità, quindi tutte le responsabilità vennero fatte ricadere sulla governance di ogni singola Azienda Sanitaria Locale.
La naturale conseguenza di quella scelta fu di concentrare tutto l’interesse delle regioni sul contenimento dei costi del servizio sanitario regionale: dalla cura delle persone alla cura dei conti economici. Divenne dovere dei direttori generali di nomina politica fare, sì, il possibile per garantire un buon livello tecnico e funzionale alle strutture sanitarie loro affidate, ma soprattutto assicurare il buon andamento economico e amministrativo della propria “azienda”, sulla base dei cui risultati (al di là dell’imprescindibile asservimento politico) essi vengono valutati alla fine del quinquennio di carica.
Il Piano sanitario Nazionale serve per definire i LEA (livelli essenziali di assistenza) per dare uniformità alla quantità e qualità dei servizi resi ai cittadini

in tutti i territori e per suddividere tra le varie regioni le risorse disponibili, provenienti dalla fiscalità generale, sulla base di una programmazione economica “pesata” sui differenti bisogni territoriali.
Sarà poi la regione a distribuire le risorse ricevute dallo Stato tra le ASL. Se le aziende vanno in disavanzo possono agire sulle entrate proprie, attraverso i ticket pagati dagli utenti, mentre le regioni possono intervenire con le risorse dei propri bilanci, ricavate dai contributi sanitari IRAP.
Questo sistema è, sostanzialmente, quello che ancora regge la sanità in Italia, anche dopo l’approvazione, nel 1999, della cosiddetta “riforma Bindi” (dal cognome dell’allora ministra della sanità, Rosy Bindi), che ha ridefinito il principio di sostenibilità finanziaria del sistema sanitario introducendo i criteri della “appropriatezza”, economicità ed evidenza scientifica delle cure.
La riforma Bindi specifica le modalità della gestione sanitaria regionale dettando nuovi limiti, ancora più stringenti, di carattere economico e funzionale. I criteri dell’evidenza scientifica (evidence based medicine) e della appropriatezza clinica dei trattamenti sanitari, stanno a significare che, a parità di risultati, va scelto il trattamento più economico e che, inoltre, non vengono garantite quelle prestazioni che non rispondono a impellenti necessità assistenziali o che non sono da considerarsi efficaci sulla base delle conoscenze scientifiche o delle condizioni del malato.
Con la riforma Bindi viene rafforzata e diventa definitiva l’aziendalizzazione delle USL, che sono regolate dal diritto privato e obbligate al rispetto del vincolo di bilancio. I Direttori generali conservano i propri poteri gestionali, rispondendo direttamente alla regione ed agli obiettivi da questa fissati. Il collegio dei revisori diventa collegio sindacale, con l’obbligo di riferire ogni tre mesi agli enti interessati (ministero, regione, sindaco) l’andamento della gestione finanziaria dell’azienda e di denunciare prontamente anomalie e scorrettezze.
Un simile quadro normativo e i continui tagli lineari in seguito ai quali la sanità pubblica, senza una seria programmazione, chiude gli ospedali periferici, non fa assunzioni di medici e infermieri, non compra medicinali e attrezzature, riduce i posti letto, hanno reso la sanità privata non più sussidiaria, ma concorrenziale.
Ad onta dell’ostentato rigore nei bilanci, il sistema delle convenzioni ha drenato una buona parte delle risorse pubbliche verso il sistema privato. Si è prodotto una sorta di “effetto supermercato”, con sconti e “offerte speciali” per esami e

accertamenti di dubbia utilità, mentre le persone effettivamente malate vengono veicolate verso circuiti perversi che estraggono dai loro malanni il massimo profitto, o attraverso i rimborsi pubblici o con il pagamento privato delle prestazioni (è per questo che prenotare una visita in ospedale comporta un’attesa di mesi, ma nelle strutture private bastano pochi giorni).
Le strutture accreditate e convenzionate aumentano il proprio fatturato per mezzo di un “consumismo” di prestazioni e di interventi chirurgici non sempre necessari, scegliendo le prestazioni più remunerative e i malati in condizioni migliori, mentre alla sanità pubblica vengono lasciate le patologie a bassa remunerazione, o che comportano un impegno maggiore ed un più alto rischio.
Insomma, per chi fa profitto con la sanità, la parola d’ordine per ogni cura o diagnosi è “ridurre i costi e ottimizzare i guadagni” né sull’operato dei privati e sugli esiti prodotti viene esercitato un adeguato controllo.
Le persone bisognose di cure, nella generalità dei casi, non sono in grado di sapere ciò di cui hanno davvero bisogno, né riescono a percepire il conflitto d’interessi che ruota attorno alle loro patologie.
I tagli alle assunzioni hanno aumentato a dismisura il precariato, tanto nel privato (dove è praticamente la regola) quanto nel pubblico. A prendersi cura della nostra salute c’è dunque una massa di lavoratori a rischio, sfruttati, malpagati (soprattutto dalle cosiddette cooperative), privi di tutele sindacali.
La speranza è che il dramma della pandemia apra gli occhi alle cittadine ed ai cittadini di questo Paese, che faccia loro comprendere la necessità di una rapida, netta inversione di tendenza, l’urgenza di salvare la sanità pubblica dalla spirale che l’affossa. Se non ora, quando?


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