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Salari e profitti: se l’Italia si lega le mani

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di Marco Leonardi e Leonzio Rizzo

Ora che l’inflazione sembra tornata a livelli normali in tutta Europa è tempo di tentare un bilancio su chi ha pagato lo scotto di questi anni e per farlo prendiamo come termine di paragone la Germania, la Francia e la Spagna. Il valore aggiunto di un paese si può scomporre in quanto va ai lavoratori e quanto va alle imprese. La quota del lavoro è data dai salari moltiplicati per il numero dei lavoratori, mentre la quota delle imprese è data dai profitti, che comprendono anche il reddito dei lavoratori autonomi a partita IVA.

Se prendiamo i dati Eurostat e calcoliamo, depurando dall’inflazione, la crescita del valore aggiunto dal 2019 al 2023 si vede che l’Italia è cresciuta del 1,63%, la Germania del 1,44%, la Francia del 2,72 e la Spagna del 4,52%. L’Italia registra una crescita dei profitti pari al 2,7%, e una crescita negativa dei salari dell’1%. La Germania è un caso simile: la crescita del valore aggiunto è tutta imputabile alla crescita dei profitti e la quota dei salari scende in valore reale. Anche in Francia la quota dei profitti cresce più dei salari, che tuttavia crescono di quasi dello 0,9%. Infine, la Spagna che ha registrato la maggiore crescita del valore aggiunto, ha distribuito la gran parte di questo sui salari, che sono cresciuti del 3,2%.

La prima cosa da chiarire è che il fatto che la quota dei profitti sia aumentata e quella del lavoro sia diminuita (in Italia e Germania) non implica “inflazione da profitti”. Negli anni passati c’è stato un dibattito sul fatto che i profitti delle imprese causassero inflazione. È caso mai il contrario: l’inflazione improvvisa aumenta i prezzi e i profitti delle imprese mentre i salari sono più lenti ad adeguarsi. Infatti, la quota aggregata dei profitti nell’economia non corrisponde necessariamente all’aumento del margine di profitto delle singole imprese: quest’ultimo cresce solo se le imprese riescono ad aumentare i prezzi più dei costi. Il margine di profitto sembra anche essere diminuito in alcuni settori dove, all’aumento dei costi dell’energia e dei beni intermedi, non è corrisposto un equivalente aumento dei prezzi finali.

La seconda cosa è che l’aumento della quota dei profitti può essere destinato semplicemente a rimpiazzare la quota di capitale consumata, cioè per fare gli investimenti necessari a mantenere il sistema industriale con la stessa potenzialità produttiva del passato. Se guardiamo alla crescita dei profitti al netto di quest’ultima quota, la Germania risulta avere una crescita reale dei profitti pari zero, mentre l’Italia registra una crescita pari quasi al 3%. Ma la Germania attraversa un periodo di recessione prolungata, con aumento di profitti zero e salari negativi, più interessante è il confronto tra Italia, Francia e Spagna.

In Italia la quota dei salari reali è diminuita di un punto rispetto al valore aggiunto totale, l’opposto è avvenuto in Francia e Spagna. In Italia, il recupero della quota del lavoro nel PIL potrà avvenire con il rinnovo dei contratti collettivi nazionali, ma che il settore pubblico e quello dei servizi siano in perenne ritardo non aiuta. Parte della differenza tra Italia e altri paesi potrebbe diminuire ma mano che arrivano i dati sui salari 2024, però molti rinnovi sono già avvenuti e può essere che il lavoro non recupererà mai la quota che aveva nel 2019. Alcuni settori hanno fatto meglio di altri, nei servizi professionali, per esempio, la quota dei salari è aumentata rispetto al 2019, ma nella maggior parte dei settori il calo dei salari è evidente.

Tutto questo è molto rilevante anche per il dibattito sull’andamento dell’occupazione. Quando il governo dice che l’occupazione è molto aumentata in questi anni, dice una verità, e sbaglia il sindacato o chi pretende di dire il contrario. Il numero degli occupati, dei contratti a tempo indeterminato e in generale delle ore lavorate è molto maggiore oggi che nel 2019. Ma l’aumento degli occupati non è bastato a mantenere costante la quota del lavoro nel valore aggiunto. La perdita di valore reale dei salari e i mancati rinnovi hanno fatto sì che ad oggi la quota del lavoro è minore di prima e questo sembra essere un nuovo punto di equilibrio.

È ben noto che nei periodi di inflazione a perderci sono soprattutto i lavoratori dipendenti. La Francia ha alzato il salario minimo legale, il che ha trascinato al rialzo gli altri salari sopra il minimo. La Spagna, che pure ha un sindacato tradizionalmente debole, ha fatto accordi tripartiti tra governo e parti sociali per i rinnovi contrattuali. L’Italia sembra che si sia legata le mani: non ha il salario minimo legale, la contrattazione nazionale in alcuni settori fondamentali da anni non tiene il passo con l’inflazione, e si continua a favorire fiscalmente il reddito da lavoro autonomo – che conta come profitto nella scomposizione del PIL- piuttosto che quello dipendente.