La nascita è un caso, ma è un gran bel caso. Se nasci miliardario e hai soldi per andare in fondo al mare a vedere ciò che resta del Titanic, non possono dirti che è colpa tua. Se nasci in Libia e non hai le scarpe ai piedi e neanche una bottiglina d’acqua, uguale: non è colpa tua. È il caso. Gente che scappa da morte certa e gente che trova la morte in modo improvviso. Quello che cambia è la reazione dei media: seicento migranti annegano nel mare della Grecia su un peschereccio che va a fondo nell’indifferenza di tutti. Accade che per quelle vite, seicento, si muove solo (e male anche) una motovedetta. Accade che i giornali, le televisioni e la politica ne parlano per due giorni, forse tre. Poi spallucce. Pazienza. Succede, invece, che per il sommergibile con a bordo cinque persone (le loro vite sono preziosissime esattamente come quelle dei seicento migranti) si muova il mondo. Legittimo e giusto. Giusto sarebbe stato anche fare qualcosa pure per le seicento vite che si sono spente in mare. Colpa della politica o di un sistema mediatico che ci rende abituali i naufragi dei migranti? Sul sottomarino si sono accesi e mai spenti i riflettori del mondo dei media che, attenzione, non fanno nient’altro che intercettare il sentiment dell’opinione pubblica e accontentarla. Stampa e televisione devono saziare la fame della gente. Tutto il mondo con il fiato sospeso: hanno ancora ossigeno? Avranno freddo? Hanno individuato il punto esatto nel quale si è persa la posizione del sottomarino? Come li stanno cercando? E così minuto, per minuto, tutti gli organi di informazione hanno aggiornato e sfamato la curiosità delle persone.
È il mondo dell’informazione, bellezza. Record di ascolti, social impazziti, copie vendute. Forse avremmo dovuto sapere di più anche su come sono morti – affogati – i seicento migranti. Chi erano? Come si chiamavano? Chi li piange? Cosa si è fatto e cosa si poteva fare? E invece nulla.