Pietro Ichino ha richiamato l’importanza di capire la struttura economica della Russia per interpretare gli sviluppi della aggressione all’Ucraina. Molti osservatori hanno ricordato come la struttura oligarchica del potere economico russo, che fornisce oggi la principale fonte di finanziamento dello sforzo bellico, sia stata creata negli anni ’90, in seguito al drammatico fallimento del processo di privatizzazione ad azionariato diffuso.
Vorrei suggerire una chiave di lettura ulteriore, confrontando l’evoluzione della struttura economica russa con quella della Cina nello stesso periodo e studiando le differenze nel modello di competizione che si è creato nei due paesi.
La Cina nell’arco di un trentennio è passata da una economia di produzione a basso costo e di imitazione alla leadership tecnologica in molte industrie. In un libro che aveva suscitato un certo scalpore nel 2018, Kai-Fu Lee, ricercatore in intelligenza artificiale, già Presidente di Google China, aveva offerto una spiegazione illuminante (AI Superpowers. China, Silicon Valley, and the new world order, Houghton Mifflin). L’immagine della Cina come paese imitatore veniva confermata in pieno, ma con una importante qualificazione: quando gli imprenditori cinesi che hanno imitato e assorbito le tecnologie occidentali iniziano le attività in patria sono a loro volta sottoposti ad un feroce processo di imitazione. La competizione è senza tregua. Per sopravvivere sono obbligati a innescare processi endogeni di innovazione. Un esempio sconcertante è fornito da Wang Xing, che ha introdotto in modo seriale in Cina gli analoghi di Friendster, Facebook, Twitter e Groupon. Per ciascuna delle imitazioni introdotte è stato a sua volta imitato da decine di altre imprese, al punto da fallire più volte prima di avere finalmente successo. Quindi le imprese cinesi che hanno successo, come i colossi tecnologici Alibaba, Ant Financial, Baidu o Tencent, sono il risultato di un severo processo di selezione. È consueto attribuire il successo industriale cinese ad un modello dirigista centralizzato, ma nella realtà l’avanzamento tecnologico è frutto di una dura competizione interna.
Non è così nel sistema post-sovietico. Fa riflettere il fatto che praticamente tutti gli oligarchi siano a capo di imprese che operano in settori di materie prime (petrolio, gas, alluminio, acciaio, metalli), nella finanza (banche) o in settori a bassa intensità di conoscenza (è noto il caso di Evgenij Prigožin nel settore del catering). Le principali voci dell’export russo nel 2020 sono state petrolio greggio, petrolio raffinato, gas, oro, carbone, grano, ferro, pesce congelato e nichel. Le principali voci di importazione sono costituite da prodotti a medio-alta e alta tecnologia: automobili, componenti auto, TV, farmaci e computer. Il principale paese esportatore in Russia è la Cina. È interessante osservare che la Cina fornisce 50 miliardi di dollari di prodotti avanzati alla Russia e importa petrolio, gas e materie prime per lo stesso importo (49.3 miliardi). La Russia è l’undicesimo paese al mondo per volume del prodotto lordo, ma solo il 70° per prodotto lordo pro capite. L’indice che misura la sofisticazione tecnologica degli scambi con l’estero della Russia la colloca al 43° posto. Non è un caso che la Russia non esporti praticamente niente che abbia un contenuto tecnologico elevato, generato da ricerca e sviluppo industriale o da innovazioni di processo.
L’export russo deriva interamente da settori basati sullo sfruttamento di rendite, di tipo naturale (giacimenti, miniere), infrastrutturale (condutture) o politico-istituzionale (contratti e appalti governativi). Sono industrie che possono essere controllate in modo centralizzato e ferreo, perché non sono soggette a innovazione tecnologica. Una volta fissati i diritti di proprietà, si generano flussi di cassa permanenti. Un intero apparato produttivo resta completamente pre-schumpeteriano, protetto dalla competizione e quindi anche dalla innovazione.
Il divario con la Cina si è creato nonostante il capitale umano della popolazione russa sia elevato per livello di istruzione e sofisticazione culturale. Ma l’intelligenza senza imprenditorialità e senza competizione non genera crescita economica. A sostegno di questa interpretazione vorrei offrire due spunti impressionistici, uno personale e uno letterario.
Esperienza personale: nel 1991-92, a valle della dissoluzione dell’URSS, la Commissione Europea lanciò un programma di collaborazione di ricerca (TACIS) con l’obiettivo di valorizzare l’élite scientifica russa e di inserirla nelle reti di ricerca europee. Partecipai ad un progetto sulle opportunità di collaborazione tra Europa e Federazione Russa nell’industria aeronautica. Avemmo accesso a dati tecnici dettagliati e incontri con scienziati e ingegneri russi di altissimo livello. La realtà era sconcertante: nessuna tecnologia aeronautica civile di origine sovietica era minimamente utilizzabile sui mercati occidentali, per innumerevoli problemi di qualità, costi, sicurezza, affidabilità, durata, ergonomia. Tutto il contrario nell’aeronautica militare, dove gli ultimi modelli di Mig e Sukhoi erano in molti casi superiori per prestazioni agli F-15 e F-16 americani. I russi progettavano ancora con metodi analogici, cioè calcolando le equazioni differenziali della fluidodinamica, con uno straordinario impegno scientifico e in mancanza di potenti computer. Conobbi piloti con due dottorati che modificavano manualmente le schede elettroniche dell’addestratore dopo aver calcolato le soluzioni approssimate delle equazioni del volo. Gli aerei militari erano l’unico settore in cui l’intelligenza russa dominava su quella occidentale. Perché? La risposta è chiara: perché erano progettati esplicitamente per una competizione diretta con il corrispondente modello americano. La superiorità in volo è infatti dettata dalla capacità delle macchine di svolgere meglio e più velocemente le manovre. In una parola: l’unico settore in cui l’ex-Unione Sovietica eccelleva era quello dove la competizione era più forte. Gli ingegneri russi progettavano gli aerei militari dopo aver accuratamente studiati i modelli americani, calcolando in dettaglio come ottenere prestazioni superiori nelle manovre, in particolare negli angoli di volo. Si comportavano cioè come gli imprenditori cinesi descritti da Kai-Fu Lee: imitavano e poi cercavano a tutti i costi di superare la concorrenza. Nel resto del sistema, protetto da un ampio e inefficiente mercato interno e dalla imposizione di prodotti scadenti ai paesi del Patto di Varsavia, la tecnologia era scadente. L’intelligenza senza competizione non produceva nessuna tecnologia esportabile. Dopo trent’anni la situazione non è cambiata di molto.
Un secondo spunto, stavolta letterario. In questi giorni di guerra in molti avranno ripreso in mano qualche lettura che ci faccia capire, almeno in parte, gli avvenimenti. Ne prendo una. In una pagina di Vita e destino Vasilij Grossman svolge una lunga meditazione sulla superiorità delle scoperte scientifiche, che “partoriscono idee nuove”, rispetto allo sviluppo delle tecnologie e alle applicazioni industriali, che vengono paragonate alla ripetitività della fabbrica o della disciplina militare. “Aerei, turbine, motori e reazione e missili hanno un ruolo enorme nella nostra vita, eppure l’umanità non li deve al proprio genio, ma al proprio talento”. Chi sviluppa le tecnologie non fa altro che riprodurre “principi esistenti, visibili, tangibili e già formulati in natura”. E così, conclude, “è sciocco chiamare genio un ingegnere”.
Nel profondo della cultura russa persiste una venerazione per le grandi visioni, i principi primi, le personalità eccezionali e ad un certo disdegno per l’attività tecnica, il perfezionamento meccanico, il miglioramento continuo. Resta una diffusa resistenza ad accettare la competizione. Se la Russia non è riuscita in tre decenni a produrre un vero decollo industriale, nonostante l’intelligenza del suo popolo, è anche perché autocrazia economica e potere politico hanno rafforzato in modo perverso questi tratti culturali. Il che apre interrogativi difficili sul futuro di questo grande paese.
Andrea Bonaccorsi
Fonte: Liberta eguale