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Recensioni brevi: “L’immensita” e “Siccità”

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Troppo kitsch la coraggiosa “confessione” di Emanuele Crialese, che abbonda esageratamente in intermezzi sonori e bizzarre identificazioni; l’apocalittica Roma di Paolo Virzì, dove non piove da tre anni e gli abitanti si muovono come zombies

 

di Franco La Magna

 

L’immensità

Apre con “Rumore” cantata da Raffaella Carrà e chiude con “L’immensità” cantata da Jonny Dorelli. In mezzo Adriano Celentano, Patty Pravo, Mina e l’intero brano della struggente e fortunatissima “A chi”? (versione italiana del brano statunitense “Hurt”), più volte ripreso e poi clamoroso successo nazionale di Fausto Leali, nel lontano 1967. Una tardiva e nostalgica hit parade? No. Soltanto l’ ultimo film del regista romano, figlio di genitori siciliani, Emanuele Crialese (nato all’anagrafe Emanuela), che coraggiosamente porta in scena la pubblica confessione della sua transizione (passaggio da donna a uomo), attraverso la narrazione d’una squinternata famiglia borghese degli anni ’70. Padre violento, fedifrago e autoritario; madre depressa, sofferente, alma mater legatissima ai tre figli (che finisce in clinica); la dodicenne Adriana-Crialese (che rifiuta la sua identità di donna, perché vorrebbe essere maschio e si fa chiamare Andrea); una sorellina piccola (in odore d’anoressia); un fratellino mangione e grassone (che defeca dietro le porte di casa). Questo il quadro dolente della famiglia, narrato con continui intermezzi sonori, stupefacenti identificazioni immaginarie (Adriana-Celentano, madre-Patty Pravo-Mina), metafore non proprio decrittabili. Caleidoscopio kitsch, scheggiato, monotono, invaso delle hit musicali del decennio ’70, con al centro (oltre ad Adriana) Penelope Cruz che cicaleggia in una stravagante lingua italo-ispana, “L’immensità” – trascinato dall’onda dei ricordi personali e dall’emotività – riporta in scena dopo molti anni di silenzio un irriconoscibile Crialese (apprezzato per le prove convincenti date in passato con “Respiro”, “Nuovomondo”, “Terraferma”, anche onusti di riconoscimenti) che imbocca un terreno troppo sdrucciolevole e scivola inopinatamente proprio sul suo film più personale,

Siccità

Siamo prossimi alla fine del mondo? Una penuria d’acqua getta Roma capitale – invasa da blatte, dove il Tevere è ormai inaridito e dove non piove da tre anni – in un agghiacciante scenario catastrofico.  Abitanti, uomini e donne, sembrano muoversi al limite della sopravvivenza, mentre attendono in lunghe file l’erogazione dell’acqua razionata e i giovani contestano agli adulti la pesante eredità del pianeta avvelenato. “Siccità” (2022) di Paolo Virzì, intreccia e tampina una breve tranche de vie di varia umanità, ricavandone una summa ora pietosa ora spaventosa, disumana, crudele, ora patetica, compassionevole, che vortica come zombie in una città a tratti post-apocalittica, gelosa dei propri privilegi o ridotta – da una non ben definita crisi – in condizioni d’indigenza. Nata, con ogni probabilità, da una estremizzazione dell’attuale condizione mondiale pandemica (ma forse anche dallo spettro d’un conflitto atomico), l’opera del regista livornese (scritta a tante mani) sposa il clima d’incertezza e di smarrimento della contemporaneità, incarnandolo in un puzzle di personaggi, tra loro diversissimi, aggiungendo in taluni casi più di un tocco di pietas umana. Una liberatoria pioggia finale apre alla speranza della salvezza, per quanto pessimisticamente (ma non sembrano queste le intenzioni del regista) potrebbe essere intesa come inizio di un diluvio universale, che affoghi in un mondo ormai in dissoluzione nequizie e turpitudini.