Alberto Cisterna
«Vengo dal tempo dei morti». Non sono parole né di Ungaretti né di Montale. Sono state intercettate anni or sono nell’abitazione di uno dei più importanti rampolli della ndrangheta calabrese. A pronunciarle un altro capo bastone, di rango. Ignorante, ma solidamente ancorato alla sua saggezza criminale, che ricordava al suo interlocutore il proprio antico lignaggio mafioso. Sono il sottotitolo, il metatesto (come si dice oggi) delle parole del governatore Michele Emiliano che tanta indignazione suscitano nei ben pensanti dell’antimafia italiana. Non occorre ricordare la storia personale del governatore della Puglia, prima magistrato catapultato in una Sicilia ancora chiaroscurale in cui il sangue delle stragi non aveva ancora tracciato una linea di demarcazione tra le toghe conniventi e quelle votate al proprio dovere e che seppe subito da quale parte schierarsi; poi uomo di punta della procura antimafia di Bari in cui ha conquistato la fiducia e la stima della sua gente che lo ha voluto sindaco.
Ma ha commesso un errore, avrebbe dovuto mandare a memoria le parole di quel boss e ricordarsi che, anche lui, viene ormai da un tempo passato. Eppure si dovrebbe pur tenere a mente che vi era un tempo in cui le mafie non si combattevano con intercettazioni a pioggia e trojan da cui estrapolare frammenti di conversazioni, divagazioni, sussulti da trasformare in pietre d’accusa.
«Vengo dal tempo dei morti». Non sono parole né di Ungaretti né di Montale. Sono state intercettate anni or sono nell’abitazione di uno dei più importanti rampolli della ndrangheta calabrese. A pronunciarle un altro capo bastone, di rango. Ignorante, ma solidamente ancorato alla sua saggezza criminale, che ricordava al suo interlocutore il proprio antico lignaggio mafioso. Sono il sottotitolo, il metatesto (come si dice oggi) delle parole del governatore Michele Emiliano che tanta indignazione suscitano nei ben pensanti dell’antimafia italiana. Non occorre ricordare la storia personale del governatore della Puglia, prima magistrato catapultato in una Sicilia ancora chiaroscurale in cui il sangue delle stragi non aveva ancora tracciato una linea di demarcazione tra le toghe conniventi e quelle votate al proprio dovere e che seppe subito da quale parte schierarsi; poi uomo di punta della procura antimafia di Bari in cui ha conquistato la fiducia e la stima della sua gente che lo ha voluto sindaco. Ma ha commesso un errore, avrebbe dovuto mandare a memoria le parole di quel boss e ricordarsi che, anche lui, viene ormai da un tempo passato. Eppure si dovrebbe pur tenere a mente che vi era un tempo in cui le mafie non si combattevano con intercettazioni a pioggia e trojan da cui estrapolare frammenti di conversazioni, divagazioni, sussulti da trasformare in pietre d’accusa. Vi era un tempo, prima che i pubblici ministeri preferissero rimanere comodamente seduti dietro le proprie scrivanie a firmare decreti o sprecassero tempo a presentare libri o a presiedere commemorazioni in cui i mafiosi si fronteggiavano a viso aperto. Oggi ci sono, e ci sono state, dozzine di processi in cui accusatori non hanno mai visto in volto i propri imputati, non li hanno mai interrogati, ne ignorano completamente finanche le fattezze. Questo lavoro “sporco” o almeno “ingrato” – quello di confrontarsi con la vita e non solo con i reati commessi da quella gente – è rimasto a carico dei giudici, dalle indagini preliminari all’appello.
Dozzine di persone sono finite all’ergastolo o sono state condannate a pene lunghissime senza aver mai incrociato lo sguardo dei propri inquisitori che, troppe volte, tengono solo la contabilità degli “scalpi” catturati per edificarvi la propria carriera.
In quel «tempo dei morti», in quella magistratura di cui Michele Emiliano è stato parte significativa, i pubblici ministeri non solo non temevano il volto dei propri indagati, ma ne ricercavano con curiosità e stupore le parole, i ragionamenti, i pensieri per comprendere davvero cosa fosse la mafia, come il “nemico” fosse realmente – oltre il circo mediatico – nella sua densità di persona umana comunque e in ogni caso. Spira da tempo una lettura “razzista” della criminalità organizzata, indisponibile a comprendere, pronta a dare stimmate moralistiche, intollerante alla necessità di destrutturare davvero la cultura mafiosa erodendola dall’interno, corrodendone i caposaldi. Una capacità di intelligere l’avversario per disarmarne la superbia, contrastarne la violenza, umiliarne la presunzione, conquistarne la stima e il rispetto, come Falcone fece con Buscetta o come Dalla Chiesa fece con Patrizio Peci che, per una generazione di magistrati, sono stati il faro della propria azione. Prima che microspie e tabulati offuscassero l’orizzonte umano di quella guerra, per trasformarla in un’arida, ripetitiva, ossessiva cyber war. I risultati sono sotto gli occhi di tutti con il crollo del pentitismo. Nessuno, forse, cerca davvero collaborazioni di giustizia, perché pochi conoscono il “capitale umano” con cui dovrebbero interfacciarsi e interloquire, pochi conoscono il volto del male e sanno reggerne la sfida. Decaro cerca di metterci una pezza dicendo che l’allora sindaco Michele Emiliano ricorda male, che quel gesto di sfida di recarsi dalla sorella di un boss per praticamente minacciarla che l’avrebbe ritenuta responsabile del destino del proprio giovane assessore in quel quartiere non è mai accaduto. Lezione da ricordare prima di lanciarsi ancora nelle piazze in stanchi e vuoti proclami contro la mafia e arrogarsi il privilegio di rilasciare preventive patenti di moralità dal piedistallo di improbabili meriti contro i clan. Oggi i coreuti sono tutti scopertamente imbarazzati dall’aneddotica sincera e fiera del governatore pugliese. Ma Michele Emiliano, si sa, viene dal “tempo dei morti”, da un tempo in cui si voleva ancora guardare in faccia i mafiosi e ricordare loro che lo Stato non sa solo incarcerare e ammanettare con il volto incappucciato dalle leggi, ma è fatto di uomini e donne che con fierezza incrociano lo sguardo d’odio dei propri avversari.
Fonte: Il Riformista