L’acronimo Invalsi significa Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione. La scuola italiana lo ha introdotto dal 2007 in poi per valutare il grado di preparazione dei ragazzi della scuola elementare e le modalità di insegnamento dei propri insegnanti. Ma sta diventando qualcos’altro…
di Anna La Mattina
All’inizio degli anni 2000, il Ministero della Pubblica Istruzione, aveva notato un sensibile calo del profitto degli studenti della scuola primaria; bisognava dunque intervenire con uno strumento in grado di comprendere il modo di apprendimento, anche al fine di aiutare i docenti in questo arduo compito. Così si diceva.
La società, soprattutto negli ultimi anni è radicalmente cambiata, le famiglie sono costituite da genitori che hanno necessità di lavorare entrambi, per il sostentamento della famiglia, quindi i bambini vengono lasciati spesso ai nonni o alle baby sitter, per essere accuditi nei loro bisogni.
In passato invece, i compiti del pomeriggio venivano svolti insieme alle mamme, che seguivano con più attenzione i propri figli, ma che oggi non hanno più il tempo materiale per questa attività. Occorre anche sottolineare che vi sono maggiori distrazioni, quali ad esempio i giochi elettronici o la televisione, quindi i ragazzi sono più “svogliati” e non riescono a studiare con una certa regolarità e interesse.
Per tutte queste motivazioni, le prove Invalsi nascono appunto allo scopo di porre rimedio al crollo culturale che si dimostra altamente pericoloso, in quanto una futura classe dirigente, priva di quegli insegnamenti di base, non può affrontare gli impegni e le responsabilità proprie dell’età adulta, uno passo importante per la crescita e lo sviluppo psico-fisico delle nuove generazioni. Questo è quello che si dice ufficialmente!
Ma, come dice qualcuno, ragioniamoci sopra.
Se un sistema educativo modificato negli anni 90 del Novecento ha dato tali frutti (un abbassamento preoccupante del livello culturale di base della popolazione scolastica italiana), il motivo è da ricercare nei metodi introdotti e ravvisati come innovativi, come ad esempio, l’introduzione del metodo globale, introdotto per l’insegnamento e l’apprendimento della lingua italiana: i giovanissimi alunni, di prima elementare, imparavano a leggere entro tre mesi dall’inizio dell’anno scolastico, ma senza capire il significato di ciò che leggevano! Mandare definitivamente in soffitta le pagine intere di vocali e consonanti, nei due classici stili, stampatello e corsivo, rispettivamente minuscolo e maiuscolo, ha determinato, insieme ai fattori di cambiamento globale della società e ai suoi valori, quel cambiamento di cui lo Stato sembra preoccuparsi. E si pretenderebbe di risolvere il tutto, con l’estensione del metodo Invalsi a tutti gli ordini di scuola: primaria, secondaria di primo grado e di secondo grado, cioè dalla ex elementare alla ex scuola superiore.
Ora, come può un sistema standardizzato, valido per il Nord e il Sud del nostro Paese, così come per le differenti stratificazioni culturali delle città e delle periferie, profondamente diverse tra loro, essere valido per tutti e sostituirsi al prezioso apporto umano di ogni singolo docente? Senza contare che l’Invalsi non aiuta a fare una disamina delle cause profonde che hanno portato a tutto questo cambiamento in perdita; piuttosto lasciando intendere che qualcosa non funzioni nel metodo d’insegnamento dei docenti.
Senza contare che la scuola dell’Autonomia, introdotta all’inizio degli anni 2000, ha abolito completamente i programmi ministeriali, per cui è come se lo Stato avesse detto: “quello che voi insegnerete ai vostri alunni non mi riguarda, l’importante è che voi raggiungiate codesti obiettivi: competenze, abilità e conoscenze”. Punto!
Tutto ciò sa di molto vago, circa il trasferimento della cultura alle nuove generazioni. A ciò si aggiunge, secondo un’applicazione demagogica della psico-pedagogia, l’abolizione del ruolo tradizionale degli insegnanti (insegnante: colei o colui che lascia il segno dentro) come punto di riferimento, trasformandolo in un ruolo tutto da identificare, di facilitatore, perché non si deve intaccare la libertà dell’alunno di autodeterminarsi e auto-informarsi.
Tante sono le tecniche proposte, una per tutte è la Flipped classroom, ovvero la Classe capovolta, in cui la centralità passa dal docente al discente, un discente siffatto, cioè uno che non sa più leggere, scrivere e far di conto!
Ma lo Stato è ancora lì ad arrovellarsi su quali possano essere le cause di tanta ignoranza e… cosa escogita? “Ma perché non applichiamo l’Invalsi per valutare le conoscenze degli insegnanti? Ecco fatto. È questo un progetto allo studio del Ministero della (ex-pubblica) Istruzione: ne parlava durante la pandemia il ministro Bianchi.
Io vorrei concludere con una seria riflessione: nei vari livelli dell’istruzione, a partire dalla scuola dell’infanzia, fino alla scuola superiore (mi piace chiamarla così), vi sono ancora in servizio un paio di generazioni di docenti, che sono stati formati alla scuola di quelle pagine intere di vocali e consonanti, che avevano imparato a far di conto, con gare di tabelline imparate a memoria, con l’esecuzione a mani e a mente libera delle quattro operazioni e che concludevano tutti i programmi di storia, geografia e scienze, compresa l’esercitazione quotidiana di analisi grammaticale, logica e del periodo entro la classe quinta della scuola elementare (si chiamava così allora). Quei docenti e quei nonni, che veniamo da quella formazione, siamo in grado di comprendere ciò che leggiamo, di esercitare la nostra professione, qualunque sia stata la nostra formazione (umanistica, tecnica o scientifica) e non c’è Invalsi che tenga a fronte di tutto ciò! Se soltanto avessimo più tempo per stare con i nostri alunni e meno con le carte da riempire; se soltanto avessimo più tempo per una scuola realmente formativa, coerente e costante e meno basata sui progetti, che aggiungono saperi spesso scoordinati e discontinui, mentre gli studenti hanno smarrito il senso dell’orientamento, perché non conoscono nemmeno la Geografia, relegata all’angolo di un’ora a settimana, persino al liceo classico! Senza contare che ai ragazzi è stata distribuita a piene mani, una droga più potente di quelle classiche: la tecnologia. Cellulari tra le mani, in epoche della vita, come l’infanzia e l’adolescenza, in cui l’individuo non può ancora disporre di sé, per esercitare il benché minimo discernimento, aumentando così i cosiddetti disturbi dell’attenzione ed aumentando pericolosamente l’esposizione ai pericoli del web, come il triste fenomeno del Cyberbullismo!
Mi sono spiegata bene? Spero di sì.