di Antonello Longo
“Scrivo quello che non saprei dire a nessuno.”
(Primo Levi, Se questo è un uomo – La tregua, Torino, Einaudi, 1989, pag. 126)
Trentacinque anni fa, l’11 aprile del 1987, si spegneva nella sua casa di Torino, Primo Levi. Doveva compiere 68 anni. Egli non chiedeva di non essere dimenticato ma di non dimenticare.
Non dimenticare che i campi di sterminio nazisti sono stati. Che sono stati realtà, ancor prima della soppressione fisica, la degradazione dell’uomo, l’offesa della sua dignità, l’umiliazione della sua umanità. Meditate, diceva, se questo è stato, può ancora essere.
Disse, introducendo “Se questo è un uomo”: “a molti individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ogni straniero è nemico. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo.”
Una spia rossa che, nel mondo di oggi, rimane sempre accesa, come dimostrano drammaticamente, in questi giorni, le atroci immagini di pulizia etnica che giungono dall’Ucraina.