Giovanni Cominelli
È tornata la corruzione politica? No, perché non se n’era mai andata. Questo è il fatto. Del resto il Rapporto di Transparency International Italia del 2023, presentato il 30 gennaio 2024, segnala che l’Indice di percezione della corruzione colloca l’Italia al diciassettesimo posto tra i 27 Paesi Europei. Dell’esistenza della corruzione pubblica siamo dunque relativamente consapevoli. Ma quanto sia estesa la parte sommersa dell’iceberg resta difficile a dirsi.
In questi giorni, l’intrico di potere/consenso, che l’ex-magistrato e governatore della Puglia Michele Emiliano ha tessuto in vent’anni come un ragno diligente, raccattando voti da tutti i gli alti/bassifondi di Bari, è oggetto di molte descrizioni e lamenti postumi. Descrittori sorpresi, oggi, perché troppo taciturni fino a ieri. Il consenso, è noto, è una droga. “…que de crimes on commet en ton nom!”, esclamerebbe oggi la viscontessa Marie-Jeanne Roland de la Platière, in visita a Bari o… a Torino.
Nei commenti viene ricordata la denuncia di D’Alema nel 1997 contro i “cacicchi” di partito, cioè contro amministratori, sindaci, governatori regionali, segretari del PCI-PDS, che praticavano “fronde” qua e là e, soprattutto, laggiù nel profondo Sud. Ma si dovrebbe ricordare che anche Matteo Renzi aveva minacciato l’uso del bazooka contro gli stessi. Ma si era subito distratto. La dimensione-partito non era nelle sue corde. E fu così che il bazooka lo usarono altri contro di lui.
La corruzione politica, una storia di lunga durata
Ciò che colpisce in questa storia è il senso di sconsolante lunga durata. I decenni sono passati invano. Scorre sotto la superficie del Paese un fiume carsico di corporativismo clanico, di arroganza, di complicità, di ricatti, di irresponsabilità, di cinismo, coperti da ogni parte politica, nel nome di valori non negoziabili, di finalità estreme, di poste in gioco irrinunciabili. O per essere più precisi: mentre a destra, intesa in senso lato, si ruba, per lo più, perché fa comodo, a sinistra si ruba, perché bisogna fermare la destra, cioè per “un alto” ideale.
Provare a capire le cause ultime di questa condizione permanente della società civile e della società politica del Paese è magra consolazione, ma è anche l’unica che ci resta ed è forse l’unica possibilità che abbiamo di rovesciare questo “destino”.
Sì, il disfacimento dei partiti nazionali di massa – anche quelli piccoli erano “di massa” – ha certamente aperto la strada alle camarille locali, ai cacicchi, ai capataz, ai caporali. Le primarie del PD al Sud, in particolare, sono sempre state funestate da irregolarità e da conseguenti inutili commissariamenti da Roma.
Come dimenticare le file di cinesi che a Napoli andavano a votare alle primarie del PD? La forza dei “cacicchi” consiste nel fatto che amministrano un patrimonio di voti, non importa come accumulato, che, al momento opportuno, la Segreteria nazionale chiede in prestito per far eleggere nel Collegio locale il candidato catapultato da Roma e totalmente estraneo al territorio.
Si tratta di un patto tra Segreteria nazionale e capetti locali: fai pure i tuoi comodi, l’importante è che mi mandi Tizio in Parlamento. I voti sono utili tanto localmente quanto nazionalmente. Perciò suonano ipocriti gli appelli romani ai repulisti.
Ma non si può dire che negli anni della Prima Repubblica – quando i partiti di massa erano vegeti – i fenomeni di corruzione politico-amministrativa fossero delle eccezioni. I più anziani ricordano la copertina dell’Espresso dell’11 dicembre 1955: “Capitale corrotta=nazione infetta”, che denunciava il sacco edilizio di Roma, o il film “Mani sulla città” sul sacco di Napoli, di Francesco Rosi, anno 1963.
La Prima repubblica, d’altronde, è finita sotto i colpi delle “mani pulite” della Magistratura, feroci, ma appoggiate dalla massa dei cittadini, i quali chiedevano una Repubblica, appunto, pulita. Gli eccessi giudiziari che sono stati allegramente praticati nell’occasione e le conseguenze politico-istituzionali negative – prima fra tutte, la riduzione della politica ad ancella della Magistratura – non possono far dimenticare le cause che li hanno prodotti.
La politica senza Patria e senza Stato
Qual è dunque la causa profonda, che spinge a raccogliere consenso con tutti i mezzi più spregiudicati? E questo anche e soprattutto da parte della sinistra, che si autodescrive quale faro di integrità e che cita ad ogni piè sospinto la famosa intervista di Scalfari a Enrico Berlinguer del 28 luglio 1981?
Certo, vi sono cause terra terra: le passioni umane e i vizi capitali, dai quali nessuno è esente per principio. Agiscono sotto ogni cielo del mondo.
Ma la causa principale è la concezione e la pratica della politica come guerra civile permanente. Guerra civile significa che nessuno riconosce all’altro legittimità di esistenza. Che non esistono regole, che persino nelle guerre “normali” si danno.
La politica non è più fondata sulla morale. Moralità della politica significa che la Patria, la Nazione, lo Stato sono il Bene comune, l’orizzonte che tutti i partiti-fazione riconoscono come proprio e che danno atto ciascuno all’altro di riconoscere come proprio. Ovviamente la Patria-Nazione-Stato non è il Volk, la Razza, il Reich, il Popolo. La Patria é quella definita nella Costituzione del 1948. La politica immorale è quella “senza Patria”, quella del “niente prigionieri”, quella dell’avversario come “hostis”, come nemico. Per battere il quale tutto è lecito, anche rubare: se violare il settimo Comandamento, e non solo quello, viene naturale agli esseri umani, diventa però giustificato e persino nobile, se si deve sconfiggere il nemico. Moralità della politica significa che lo Stato è di tutti, che non è utilizzabile a fini di partito, per quanto nobili.
Tre o quattro guerre civili
Ora, la politica come guerra civile immorale è un tratto costante della politica italiana, dal 1946 in avanti, dall’inizio della guerra fredda. Ogni volta le maschere in scena di questa guerra civile sono state diverse.
All’inizio fu lo scontro tra anticomunismo-comunismo. Il terrorismo degli anni ‘70/80 è un capitolo estremo di questa fase. Il comunismo cade nel 1989 con il Muro. Se il comunismo è morto, non così l’anticomunismo, le cui bandiere cadute nella transizione post-Muro sono da Silvio Berlusconi riprese in mano.
Il quale seppellisce la Bicamerale, che avrebbe dovuto costruire Istituzioni condivise di governo e aprire una nuova fase. Così le maschere della nuova guerra civile diventano l’anticomunismo di Berlusconi e l’antiberlusconismo della sinistra. Nel 2011 cadono il berlusconismo e l’antiberlusconismo.
Si ripresentano di nuovo due occasioni, in successione, del reciproco riconoscimento: il Gruppo di lavoro per le Riforme istituzionali, istituito nel 2013 dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, e il referendum Renzi del 2016. Ma, nel frattempo, è entrata in scena una nuova maschera, che dichiara guerra civile totale a tutto il sistema partitico come tale e a quello istituzionale: il M5S. Il ridimensionamento negli ultimi tempi del nuovo personaggio non ha portato che a una tregua, ben presto interrotta da una nuova battaglia: quella della sinistra contro il ritorno del fascismo della Meloni. Una battaglia senza quartiere e senza morale pubblica.
Morale, si fa per dire, di questa triste, interminabile storia: la corruzione della vita pubblica in Italia tornerà nei limiti “fisiologici”, solo quando la politica italiana, – cioè i partiti e la parte di società civile che li sostiene – uscirà dalla condizione di minorità, in cui si è provincialmente rinchiusa.
Le sfide geopolitiche del presente richiedono una coscienza nazionale forte, istituzioni di rappresentanza e di governo forti. Per costruirle, occorre il reciproco riconoscimento, che renda meno soteriologico l’arrivo al potere, meno traumatica la sua perdita. Che renda meno necessaria l’accumulazione di voti ad ogni costo, compreso il costo di rubare.