Phillis Wheatley è stata la prima scrittrice afrostatunitense a pubblicare un libro.
Nata in Senegal o in Gambia, forse nel 1753, ancora bambina fu rapita e portata in America dove arrivò nel 1761 a bordo di una nave che trasportava schiavi chiamata “Phyllis“, dalla quale prese il nome di battesimo. Nuda e senza denti, per questo si ipotizzava che avesse all’incirca sette anni, snella e fragile, fu tra le ultime persone a essere vendute per pochissimi soldi, perché il capitano della nave credeva che fosse in punto di morte tanto era deperita. A Boston, dopo varie tappe nell’Atlantico dove gli schiavi più forti e in salute scendevano, predestinati a lavorare nelle colonie degli stati del sud, venne comprata da una ricca coppia di commercianti illuminati, John e Susanna Wheatley da cui prese, come era consuetudine ai tempi, il cognome.
Oltre a servire in casa, vista la sua straordinaria intelligenza, i suoi padroni la incoraggiarono a studiare, ebbe come tutore il loro figlio Nathaniel che le insegnò l’inglese, i classici e tante altre materie, le imposero anche il battesimo e crebbe come una fervente religiosa.
Amava scrivere, le veniva naturale, scrisse varie elegie per i giornali locali, assurse a notorietà nazionale nel 1770 con l’omaggio in versi a George Whitefield, il predicatore fondatore del Metodismo.
A diciotto anni aveva già raccolto 28 poesie e pronto un volume da editare, ma era inconcepibile, ai tempi, che una donna nera potesse scrivere poesie e addirittura un libro. Per questo motivo, nel 1772, Phillis Wheatley fu costretta a difendere le sue capacità letterarie in tribunale, dove venne sottoposta a un esame da un gruppo di eruditi e personalità che ammise che era lei l’autrice delle poesie che le venivano attribuite e le rilasciò un attestato, poi inserito nella prefazione del libro Poesie su vari argomenti, religiosi e morali.
A Boston, però, nessun editore voleva pubblicarla, fu grazie all’intervento di Selina Hastings, la Contessa di Huntingdon, facoltosa sostenitrice delle cause evangeliche e abolizioniste, che il suo primo libro venne pubblicato nel 1773, a Londra.
Divenne così la prima donna schiava e afrostatunitense a pubblicare un libro e la terza nella storia dell’America del Nord.
La sua forma poetica preferita era il distico, la maggior parte dei versi composti erano elegie, poesie sulla morte di personaggi famosi o persone amiche. Temi e tecniche erano in stile classico spesso riadattati a temi religiosi.
In Inghilterra e in Europa, nell’età dei lumi era acclamata come un portento, un esempio simbolo di emancipazione, mentre in America era ancora schiava, pur essendo affrancata dopo la notorietà della sua pubblicazione, non lasciò la casa dei padroni fino a che la famiglia non si disperse dopo la morte del capostipite.
C’è chi afferma che applicò il simbolismo biblico per evangelizzare e commentare la schiavitù.
Il suo poema più famoso è stato On being Brought from Africa to America. Fece molte celebrazioni degli Stati Uniti, conobbe il presidente George Washington, dopo una fitta corrispondenza epistolare. Man mano che il movimento rivoluzionario prendeva forza, prese a scrivere di tematiche vicine al punto di vista dei coloni.
Il 1 aprile 1778, nonostante lo scetticismo e la disapprovazione di alcuni dei suoi amici più cari, sposò John Peters, nero libero con manie di grandezza che faceva il droghiere e che, talvolta, si spacciava per avvocato e per tante altre cose. Arrogante, orgoglioso e fine oratore, indossava la parrucca, portava il bastone e si comportava come un gentleman.
Ebbero probabilmente tre figli, di cui soltanto uno sopravvisse.
I problemi economici, dovuti anche all’ambigua condizione in cui vivevano le persone nere libere a quei tempi, impreparate a competere con le bianche in un mercato concorrenziale, costrinsero Phillis Wheatley a tornare a fare la domestica per mantenere quel marito fannullone che poi la abbandonò.
Malata e indigente passò gli ultimi anni della sua vita in un appartamento in una zona degradata di Boston con suo figlio. Quella donna che era stata onorata e rispettata da personalità eminenti, finì i suoi giorni in uno stato di miseria e abbandono.
È morta il 5 dicembre 1784 e sepolta in un’anonima tomba. Il figlio la seguì dopo poche ore.
Anche nei periodi bui, Phillis Wheatley, aveva continuato a scrivere e pubblicare le sue poesie e a mantenere, per quanto possibile, la sua corrispondenza internazionale.
Sognava di pubblicare un secondo volume di poesie, ma non ne ebbe il tempo, sebbene avesse circa 30 anni.
Alla University of Massachusetts di Boston c’è un edificio a cui è stato dato il suo nome.
Come caso letterario Phillis Wheatley ha diviso la critica dei suoi tempi. Mentre era esaltata perché donna, nera, schiava e quindi già per questo un grande esempio da emulare, citata dagli abolizionisti che l’hanno succeduta per dimostrare l’utilità dell’istruzione. Dall’altro lato era criticata perché nei suoi scritti scriveva per una platea bianca e tranne in rarissimi casi, non citava il suo stato di schiavitù. Ci si è chiesto anche se la sua moderazione nei toni fosse solo l’imitazione dello stile dei poeti popolari in quel periodo oppure dovuta alla sua condizione in cui non poteva esprimersi liberamente. Se non parlasse della sua condizione di schiava perché voleva in qualche modo attribuire a Dio, alla sorte il destino delle persone soggiogate come lei più che a degli altri esseri umani. Ci si è interrogati su un sottofondo di critica alla schiavitù come istituzione, al di là della semplice realtà che la sua stessa scrittura ha dimostrato.
Di sicuro le sue poesie mostrano una qualità classica e un’emozione contenuta e per la maggior parte hanno a che fare con sentimenti cristiani pietistici.
Fonte: Una donna al giorno