di Lia Quartapelle
La sconfitta dei democratici americani è di dimensione storica. Harris ha perso circa 12 milioni di voti rispetto a Biden nel 2020, Trump ne ha persi almeno 3. Non è dunque la ricetta di Trump che ha fatto cambiare idea agli elettori, è la ricetta democratica che non ha convinto abbastanza.
Certamente alla base del risultato ci sono anche questioni che si potrebbero definire tecniche o di struttura, legate al processo con cui si è arrivati alla candidature di Kamala Harris, tardi e obtorto collo. Le primarie servono a testare le leadership e le idee. Senza primarie, Harris ha affrontato la campagna senza aver avuto il tempo di delineare il perché della propria candidatura, senza aver affermato la propria leadership nella lotta politica e senza essersi fatta conoscere e apprezzare dagli elettori del proprio campo. A correggere questo errore di impostazione strutturale non sono bastati i finanziamenti, le scelte organizzative della campagna e il lavoro capillare dei volontari.
Anche le spiegazioni legate all’ identità della candidata (“è donna, è nera”) o al malcontento di segmenti dell’elettorato (“i latinos sono stati spaventati dal messaggio sull’aborto”) sono spiegazioni troppo parziali. La destra nazionalista e populista ha una visione del mondo fatta di muri e protezionismo e, per quanto sia una visione cinica e pericolosa, c’è. Ed è una visione utile a incanalare la rabbia e le paure delle persone. Ai democratici è totalmente mancata una idea di trasformazione della realtà. Al MAGA, alla denuncia del sistema fatta da Vance, non si può rispondere con un set di politiche, peraltro molto vaghe (come le proposte di Harris e Walz per ridurre l’inflazione). Serviva una visione alternativa di economia e società che non c’è stata. E che manca da tempo nella riflessione dei progressisti in Occidente. Viviamo in una società nella quale le persone si stanno impoverendo, dove la maggioranza di chi ha una occupazione lavora di più e guadagna di meno, dove il contributo che uno dà alla società non viene ricambiato da servizi all’altezza e da stipendi che coprano le necessità (parliamo di necessità, non di consumi sfrenati). In cui l’immigrazione fa paura e l’istruzione si è trasformata da ascensore sociale a filtro sociale. Da tempo la sinistra occidentale non vede i problemi scomodi (l’immigrazione, la microcriminalità, la sicurezza nazionale), non aggredisce le questioni economiche o la crisi del sistema di welfare. Quando la sinistra in Occidente vince, vince con personalità rassicuranti che offrono qualche cerotto. Quando mobilita, mobilita segmenti sempre più ridotti di elettorato usando l’identità e l’indignazione.
La sconfitta di questa notte è una sconfitta di tutte le anime del partito democratico americano, ed è una sconfitta che suona come una potente sirena di allarme anche in Europa. Sarebbe sbagliato – ma accadrà – dividerci tra chi dirà che si deve essere più di sinistra e chi dira’ che si deve essere più moderati e abbandonare le lotte identitarie. Oggi è il ground zero per il progressismo – in America e fuori – e’ necessario smettere di guardare alle complessita’ pensando che la strada da percorrrere sia la classica dicotomia nota tra guardare al centro o guardare a sinistra e alternare l’orizzonte dell’area politica tra queste due visioni monolitiche e limitate. Bisogna spiegare cosa vogliamo e come lo vogliamo, senza vergognarci delle nostre idee. Trump in dieci anni ha rivoluzionato tutto (con idee tremende) il discorso politico americano. Ha reso mainstream posizioni che erano minoritarie e impensabili. Se qualcosa si puo’ imparare e’ che ogni idea, brutta o bella, puo’ diventare maggioritaria insistendo e lavorando. Questo è uno processo per cui servono “attenzione e apprendimento continui” e io mi auguro che quanto accaduto negli USA ci convinca che la demonizzazione dell’avversario non è un argomento sufficiente per sconfiggere gli avversari, ma che dobbiamo impegnarci per tirare fuori nuove idee su che mondo vogliamo.