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«Pasta di alta qualità in Italia in America dittatura del politicamente corretto»

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Parla Giuseppe Di Martino, proprietario di quattro aziende top nel settore: «A Gragnano abbiamo dei pastai straordinari anche da tre generazioni e sarebbe impossibile sostituirli»

Greta Mauro

Giuseppe Di Martino pastaio da tre generazioni, proprietario di 4 aziende top nel settore: Pastificio Di Martino, Pastificio dei Campi, Antonio Amato e Grandi Pastai Italiani. Sei stabilimenti produttivi in Italia, uffici e sedi ad Amburgo e New York. Il gruppo esporta il 93% della produzione in oltre 36 paesi nel mondo, per un totale di oltre 8 milioni di porzioni di pasta al giorno. Ma tutto parte da un territorio fortunato: Gragnano, in Campania. Qui anche il microclima è perfetto, Gragnano si trova in un pianoro sul mare in fondo ad una valle circondata dai monti Lattari che la proteggono dai venti che arrivano da nord sud ed est, dannosi per la produzione della pasta, da ovest però ogni giorno per 12 mesi l’anno dopo le 12 arriva la brezza marina che trovando nei monti una barriera, magicamente inizia a turbinare sopra le teste dei gragnanesi creando l’umidità giusta per la riuscita della pasta.
Giuseppe Di Martino, quando avete esportato la vostra pasta per la prima volta?
«Mio nonno Giuseppe Di Martino nel 1915 fu il primo ad esportare la pasta attraversando il canale di Panama, appena aperto, capì il valore simbolico e alimentare della pasta per gli italiani emigrati».
Un visionario.
«Sì, lui era un imprenditore puro, uno di quelli che amano il rischio e sanno farlo. Nel 1912 faceva l’operaio in un pastificio di Gragnano, il titolare non voleva che le tre figlie continuassero quel mestiere, voleva farle studiare, capì che mio nonno che aveva 18 anni era più svelto degli altri e decise di affidargli il pastificio restando accanto a lui per insegnargli il mestiere. Con un mutuo ventennale comprò l’azienda ed eccoci qui».
Continuando a produrre solo in Italia.
«Sì al 100%, per fare un prodotto di alta qualità bisogna per forza farlo in Italia, sia per la reperibilità delle materie prime, quindi solo grano italiano che per la formazione del personale, a Gragnano abbiamo dei pastai straordinari anche da tre generazioni e sarebbe impossibile sostituirli, qui in Italia abbiamo il meglio».
Un territorio fortunato il vostro, cosa che non si può dire purtroppo di molta parte della vostra regione.
«Quella che si fa nel nostro territorio io la definisco imprenditoria eroica da un punto di vista ambientale, territoriale, logistico, organizzativo, e politico. Quando lavori qui hai tutte le difficoltà del sud Italia ma anche della provincia del sud Italia. Gragnano vive una realtà diversa perché ha un tessuto sociale più sano più teso al lavoro, e se produci modelli positivi crei emulazione. La gente di qui ha sfruttato la sua fortuna, perché il lavoro si trovava e ti permetteva di intraprendere una carriera, di imparare un mestiere».
È ancora così? Non avete perso lavoratori che preferivano percepire un reddito di cittadinanza?
«No, a Gragnano non è successo è una città operosa che ha sempre lavorato. La gente è abituata all’impresa, non sta ad aspettare che le cose piovano dal cielo».
Solo in Italia avete 350 dipendenti, ti senti tutelato dallo stato e dalla politica come imprenditore?
«Penso potrebbe essere maggiore, si potrebbe fare molto di più per il made in Italy anche da un punto di vista del sostegno alle esportazioni. Se pensi che il consumatore straniero compra prima un pacco di pasta e poi decide come cucinarlo, in base a quello acquista gli altri ingredienti, l’effetto su tutto il made in Italy di un piatto di pasta è straordinario».
In questo momento il Made in Italy è al centro anche dell’agenda politica del governo.
«Sì, l’attenzione è alta, le intenzioni sono maggiori del passato, ma dobbiamo dare il tempo alla politica di realizzarle, di far diventare il Made in Italy un traino della nazione. Il problema è che noi italiani siamo dei piagnoni».
In che senso?
«Non ci rendiamo conto di come il mondo guardi a noi, di quanto ci adori, di quanto si aspiri all’italianità, essere grandi vuol dire lottare per il made in Italy anche contro la contraffazione, solo 3 su 10 prodotti italiani sono autentici».
Questo lo si fa solo uniti, cosa che a volte in Italia non avviene.
«Purtroppo è così, siamo un popolo di individualisti, se vuoi anche da un punto di vista positivo, nel senso che l’italiano vuole distinguersi sempre dal suo vicino, è competitivo, vuole fare sempre qualcosa che sia più bello, attraente, ma esasperare questo aspetto non fa bene al settore. Ad una qualsiasi fiera dell’alimentare nel mondo, trovi 5000 espositori italiani che forse insieme non fanno il fatturato dei 300 francesi o dei 750 tedeschi perché ognuno porta la sua storia e cerca di distinguerla dagli altri, in questo modo non si fa squadra ed emerge solo chi ha più mezzi».
Voi siete molto attenti al consumatore, addirittura fornite la posizione esatta in cui viene prodotto il vostro grano, ma non stiamo un po’ esagerando? Cosa è cambiato?
«Il consumatore oggi è iper informato, non si fa più fregare da un messaggio pubblicitario, l’offerta è tantissima e possiamo scegliere cosa mangiare. La gente spende meno per mangiare, la spesa per l’alimentare è diminuita drasticamente dal 40, 45% degli anni 50 al 15% di oggi, ciò significa che siamo molto più attenti a quello che compriamo perché abbiamo più scelta. Le persone nel mondo occidentale spendono più per dimagrire che per mangiare».
Poi ci sono i movimenti ambientalisti.
«Io mi considero un ambientalista perché ho visto e conosco gli effetti del clima sul grano, sulle coltivazioni, conosco la problematica della incertezza climatica e il riscaldamento globale. Ma c’è una deriva ambientalista che non ammetto, il terrorista ambientalista è come qualsiasi altro tipo di terrorista, e di certo non fa bene alla causa. Le persone che hanno un’idea di sostenibilità sono moderate e hanno un approccio saggio».
Parliamo di New York, all’interno del Chelsea Market avete aperto un punto vendita e un ristorante “La Devozione”. Com’è l’America da imprenditore?
«Un posto meraviglioso per fare impresa, molto sfidante, ti mette sotto pressione in maniera straordinaria, è molto complicato dal punto di vista della concorrenza, del combattimento del mercato, però è anche il mercato delle grandi opportunità perché è un mercato che ti permette di crescere, se il tuo progetto vale li ha molta più certezza di affermarsi che nella vecchia Europa, dove abbiamo una serie di complicazioni nella crescita delle imprese come il sistema bancario e la burocrazia che sono molto limitanti per un imprenditore. L’America è davvero la terra dalle grandi opportunità, in una generazione puoi diventare miliardario, in Europa non è mai accaduto. Detto questo ci sono molte difficoltà legate alle nuove sensibilità».
In che senso?
«A New York abbiamo 70 dipendenti, e le complicazioni sono tante, nei rapporti tra i dipendenti e tra i dipendenti e i manager perché temi come la diversità, la provenienza etnica, la religione, il genere vengono affrontate a volte con estrema attenzione in alcuni casi esagerata, per cui anche il manager più preparato e sensibile sta in una specie di campo minato».
Per esempio su cosa?
«Ad esempio il pronome utilizzato per definire una persona, non è scontato non è più solo he o she, ma hai una serie di alternative him, them o they. E ogni volta prima di iniziare a parlare devi capire in che modo la persona voglia essere definita. E se non lo fai nel modo giusto può diventare un problema».
Tu cosa ne pensi?
«È l’esasperazione di un pensiero anche giusto, ma tutte le esagerazioni diventano estreme, e fanno crescere mondi che se ne approfittano, perché intorno a tutto questo vivono e si arricchiscono una serie di interessi quali quelli legali, studi di avvocati che campano così».
E voi come fate a tutelarvi?
«Facciamo due corsi di aggiornamento comportamentale all’anno, per tutti, non solo per i manager, perché è nostra anche la responsabilità dei rapporti tra i dipendenti, per cui l’azienda deve formare tutti i dipendenti nei rapporti interpersonali. Tutti devono partecipare, così la vita si complica, ma ti eviti di rischiare denunce per niente».
Quindi Italia o Usa?
«L’Italia è casa nostra e non sarà mai sostituita, per me l’Italia è mamma, è il Napoli, il meridione, è il mio paese. Ma come diceva uno che parlava meglio di me “Se vuoi essere globale parla del tuo villaggio”».
Ti dirò delle parole e devi rispondermi di getto. Amicizia.
«Amore».
Passione.
«Sempre amore».
Tentazione, e non mi dire amore.
«No, direi stimolo».
Ultimo film che hai visto?
«Dogman con mio figlio domenica».
Ultimo libero letto?
«“C’eravamo tanto odiate”, sull’eterna rivalità tra Callas e Tebaldi, sono un grande appassionato di opera e musica classica, una vera eccellenza italiana».
Ultimo viaggio che hai fatto?
«Sono stato a Copenaghen per lavoro, un mondo davvero diverso dal nostro, da loro non esistono sfumature, è tutto bianco o nero. Se vuoi anche più semplice. La cosa che mi ha più colpito è stato il racconto di una collega, ho scoperto che lì i nonni che aiutano facendo baby sitting ai nipoti percepiscono un sussidio dallo stato, una cosa che mi ha spiazzato».
Se avessi un desiderio, solo uno, quale sarebbe?
«La felicità dei miei figli».

Fonte: il Riformista