AGI – Uno spiazzo, quattro chiese, un cumulo unico di macerie. Papa Francesco prega tra i muri abbattuti ed il cemento sfarinato della Hosh-al-Bieaa, la piazza delle quattro chiese di Mosul. Ne resta ben poco: né di quella siro-cattolica, o di quella armeno-ortodossa, né della siro-ortodossa e nemmeno della caldea. Distrutte tra il 2014 e il 2017 dal terrorismo fondamentalista dell’Isis, quello che il Pontefice ha definito in questo viaggio un’autentica bestemmia.
I cristiani rimasti, dopo tanto orrore, sono una settantina di famiglie e niente più. I loro cari, i loro amici sono morti o se ne sono andati; per questo il Papa viene qui: a pregare per i morti di quella violenza. Tutti i morti, sia chiaro, perché se i cristiani sono stati i primi perseguitati, gli yazidi hanno se possibile sofferto altrettanto se non più. E la stessa popolazione musulmana ha pagato il suo tributo.
Mosul, capoluogo del nord dell’Iraq, dove la popolazione è cristiana, curda, yazida e turcomanna. Qui Saddam Hussein concentrava i suoi attacchi son il gas ben prima della Guerra del Golfo; qui gli effetti tremendi della sua caduta si sono fatti sentire ancora più forti fino ad arrivare agli stermini dell’Isis. Bergoglio ascolta le testimonianze, resta assorto.
Poi il rappresentante della comunità sunnita (sunnita come sunniti erano gli uomini dell’Isis), Gutayba Aagha, avanza una richiesta: “Invito i nostri fratelli cristiani a tornare in questa loro città, nelle loro proprietà”. È il fulcro del problema, il rientro. Lo si desidera, ma il desiderio si affievolisce di fronte alla prospettiva di dover ricominciare daccapo la vita, per l’ennesima volta, in un ambiente dove non si può vivere del tutto liberi dalla diffidenza e ci si deve impegnare anima e copro per riavere anche solo quel poco che si possedeva prima.
“Malgrado tutto, riaffermiamo la nostra convinzione che la fraternità è più forte del fratricidio, che la speranza è più forte della morte, che la pace è più forte della guerra”, sottolinea allora il Papa, mentre una bava di vento solleva un nuvolotto di polvere dal cemento grigio delle macerie. Poi aggiunge: “”La vera identità di questa città è quella della convivenza armoniosa tra persone di origini e culture diverse. Per questo, accolgo con grande favore” l’invito “alla comunità cristiana a tornare a Mosul e ad assumere il ruolo vitale che le è proprio nel processo di risanamento e di rinnovamento”.
Infatti “Il tragico ridursi dei discepoli di Cristo, qui e in tutto il Medio Oriente, è un danno incalcolabile non solo per le persone e le comunità interessate, ma per la stessa società che si lasciano alle spalle”. Come dire: non riammessi per pietà, ma riconosciuti per i loro meriti e le loro sofferenze.
A Qaraqosh, una volta lasciata Mosul, scene da prima del coronavirus: Papa Francesco sfila in automobile tra due ali di folla che agita fiori bandiere palloncini gialli e bianchi. Qaraqosh è il centro principale del Kurdistan iracheno, dove i cristiani sono il 90 percento della popolazione. L’Isis l’aveva trasformata in un lager a cielo aperto.
Quando Bergoglio scende dalla automobile, senza la mascherina, il servizio di sicurezza serra i ranghi, lo spazio sul marciapiede di fronte alla chiesa dove avverrà l’incontro è occupato fino all’ultimo centimetro quadrato, due bambini che aspettano per regalargli un mazzo di fiori si guardano in giro spaesati.
Anche qui la basilica, la più grande del paese, è stata semidistrutta. Nel 2014 fu vandalizzata, profanata e bruciata dalle milizie del sedicente Stato Islamico, che l’aveva trasformata in un poligono di tiro. Parte del campanile abbattuto, le statue decapitate, i locali incendiati, i mobili, i registri e i libri sacri gettati al rogo nel cortile e il coro usato come bersaglio.
Adesso una nuova statua della Madonna è stata eretta sul campanile ripristinato, le mura e le colonne di marmo annerite dalla fuliggine sono state ripulite, e un’immagine di circa due metri di Nostra Signora dell’Immacolata Concezione, è tornata sull’altare. Soprattutto, Bergoglio ritrova il contatto con la folla, che gli era mancato da un anno esatto a questa parte.
“La strada per una piena guarigione potrebbe essere ancora lunga, ma vi chiedo, per favore, di non scoraggiarvi”, dice ai cristiani dell’Iraq. Ci vuole “capacità di perdonare e, nello stesso tempo, coraggio di lottare. So che questo è molto difficile. Ma crediamo che Dio può portare la pace in questa terra. Noi confidiamo in Lui e, insieme a tutte le persone di buona volontà, diciamo no al terrorismo e alla strumentalizzazione della religione”. Un ragionamento che vale anche dove gli ex perseguitati sono la maggioranza schiacciante.
Quello che Bergoglio auspica è “il trionfo di una cultura della vita, della riconciliazione e dell’amore fraterno, nel rispetto delle differenze, delle diverse tradizioni religiose, nello sforzo di costruire un futuro di unità e collaborazione tra tutte le persone di buona volontà”.
Senza dimenticare che la rinascita è anche un’opportunità per cambiare anche abitudini culturali. “Vorrei dire grazie di cuore a tutte le madri e le donne di questo Paese, donne coraggiose che continuano a donare vita nonostante i soprusi e le ferite”, sottolinea non a caso Francesco, prima di esortare: “Che le donne siano rispettate e tutelate! Che vengano loro date attenzione e opportunità”.
Allo stesso modo usa, il Papa, nuovi criteri per delineare quella che dovrà essere da ora in poi la presenza delle chiese in questo angolo di mondo. Lo fa da Erbil, terzo centro dell’Iraq settentrionale toccato in questa giornata intensa. Qui ad aspettarlo ci sono almeno diecimila persone sul prato e sugli spalti dello Franso Hariri”, per la celebrazione della Santa Messa della terza domenica di Quaresima. E’ l’ultimo atto ufficiale della visita in Iraq. è un nuovo momento di contatto con la folla.
Il Pontefice compie in auto un giro lungo il perimetro dell’impianto, vi vede “non una comunità che divide, che contrappone, che esclude, ma al contrario il primo passo per “costruire una Chiesa e una società aperte a tutti e sollecite verso i nostri fratelli e sorelle più bisognosi”.
È questo il modo in cui “ci si rafforza, perché sappiamo resistere alla tentazione di cercare vendetta, che fa sprofondare in una spirale di ritorsioni senza fine”. Una comunità “non a fare proselitismo” ma composta di “discepoli missionari, uomini e donne chiamati a testimoniare che il Vangelo ha il potere di cambiare la vita”. Passaggio delicato, questo, dacché l’accusa di proselitismo mossa ai cristiani è stata spesso in passato l’anticamera della persecuzione.
“Salam, salam, salam! Shukrán! Dio vi benedica tutti! Dio benedica l’Iraq! Allah ma’akum” esclama Papa Francesco. Sono le ultime parole di questa visita. Domani l’aereo lo riporterà a Roma. Con lo sguardo rivolto al futuro, con il ricordo di quattro chiese ridotte ad un mucchio incolore di macerie.
Source: agi