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"Ogni giorno contavamo i morti". I racconti di cinque eritrei fuggiti dai lager libici

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AGI – “In Libia a Ben Walid e nella prigione Sikka ho visto morire 26 persone, le ho contate una a una. Anche un mio nipote: non so dove è stato sepolto. Le celle erano sottoterra, c’era tanta umididità, molti si sono ammalati di tubercolosi”. Abde ha 39 anni e vive da qualche settimana insieme ad altri quattro profughi eritrei in un appartamento a Lambrate, quartiere nella zona est di Milano.

“I miei figli e mia moglie mendicano sull’uscio di una Chiesa eritrea” 

“Fanno parte di un gruppo di un centinaio di eritrei arrivati attraverso il corridoio umanitario attivato da Sant’Egidio alla fine di novembre e sono stati scelti in base alla delicatezza delle loro storie. Ora sono entrati in un protocollo di accoglienza a totale carico della Comunità” spiega Stefano Pasta, uno dei responsabili del servizio profughi a Milano.

Dagli stralci dei loro racconti letti dall’AGI resi alla Commissione per il riconoscimento della protezione internazionale, emergono in modo crudo i dettagli della prigionia nei campi di detenzione e le loro storie familiari.

Abde è scappato nel 2016 in Etiopia dopo 17 anni in cui ha fatto il giardiniere per l’Esercito come servizio militare. Il suo grande cruccio è non aver potuto portare con lui la famiglia: “Oggi i miei sei figli e mia moglie mendicano sull’uscio di una chiesa in Eritrea e negli anni del mio inferno in Libia le loro condizioni sono precipitate” dice, anche perché  i parenti hanno dovuto vendere alcuni beni per pagare i trafficanti mentre era nel carcere della Libia: “Quando sono scappato l’amico con cui sono partito è stato ammazzato al confine. Dopo il Sudan ho percorso il deserto. Abbiamo provato a scappare ma non era possibile. Sono stato liberato dall’inferno quando mi hanno detto che potevo venire in Italia”.

“Torture ogni giorno” la storia dell’ingegnere Dejen 

Dejen, 46 anni, ha moglie e tre figlie minorenni in Eritrea e un figlio minorenne nel campo profughi di Mai Aini, in Etiopia. Con lui non ha contatti a causa della guerra in Tigray ed è in ansia perché non riesce ad avere comunicazioni telefoniche: “E’ un ragazzino, scappato minorenne per non finire a fare lo schiavo nell’esercito”.

Dejen è un ingegnere edile, l’unico dei cinque ‘adottati’ da Sant’Egidio a parlare un po’ d’inglese. Racconta di essere stato costretto a  fare il servizio militare per molti anni e di essere stato arrestato per contrasti coi superiori e deportato sull’isola di Harat.

“Ho sofferto la fame, la sete mi aveva asciugato la gola. Il cibo e l’acqua mancavano ma le torture c’erano ogni giorno” sono alcuni dei suoi ricordi della prigionia ad Al-Zawija, in Livia. “Quando sono riuscito a uscire nel marzo 2018 i trafficanti ci hanno imbarcato: dopo 15 ore la Guardia costiera insieme alla Marina italiana ci ha raggiunto e riportato in Libia. A quel punto sono passato per le prigioni di Ain Zara e Abu Selim. Siamo stati liberati in occasione degli scontri. Nel 2019 ho riprovato a partire ma mi hanno riportato in Libia di nuovo”.

Le profonde cicatrici sul corpo 

I cinque ‘milanesi’ hanno tra i 39 anni e i 50 anni ma, osserva Pasta, “sembrano molto più anziani a causa delle cicatrici sul corpo, eredità delle torture subite, e di quelle psicologiche. Sappiamo che nelle carceri eritree i detenuti vengono picchiati in modo che chiamino i familiari perché gli diano il denaro per il viaggio. “Tre di loro sono originari di una regione rurale eritrea e lavoravano in fattorie agricole. Hanno svolto per molti anni il servizio militare che di fatto è una schiavitù di Stato e i loro problemi di natura ‘politica’ sono legati a questo. Hanno percorso la rotta ‘classica’ Eritrea – Etiopia – Sudan – Libia. Due di loro hanno provato qualche mese fa a venire in Italia ma sono stati riportati in Libia, dicono anche dalla guardia costiera italiana che li ha consegnati a quella libica”.

La nuova vita da ‘milanesi’

Ora la loro preoccupazione più grande è aiutare i familiari e non vedono l’ora di trovare “qualsiasi lavoro a Milano” per poter mandare i soldi a mogli e figli. “il protocollo di Sant’Egidio – spiega Pasta – si propone come modello organizzativo alternativo un’immigrazione disorganizzata. Stiamo cercando di velocizzare il più possibile le pratiche di burocrazia e i cinque stanno già frequentando la scuola d’italiano”.

L’obbiettivo è anche farli inserire nella comunità milanese a partire dalla collocazione in una casa che è il lascito di un generoso anziano del quartiere legato a Sant’Egidio. “Una volontaria gli ha fatto visitare il Castello Sforzesco e hanno partecipato con noi alle celebrazioni natalizie. Inizia soprattutto da qui, dall’essere ‘milanesi’, la loro nuova vita”.          
 

Source: agi


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