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“Non ha sbagliato solo lei: anche le aziende sono malate di profitti”

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“Non ha sbagliato solo lei: anche le aziende sono malate di profitti”

M. Coen Cagli » Virginia Della Sala

Chiara Ferragni ha sicuramente sbagliato, ma non è la sola. Le aziende e le organizzazioni che hanno scelto lei come sponsor o testimonial hanno pari responsabilità, se non maggiore. A spiegarlo è Massimo Coen Cagli, fondatore della Scuola di Fundraising di Roma e che da più di 35 anni fa consulenza e formazione sul tema.
Caso pandoro: che ne pensa?
È stata una truffa. Far passare il messaggio che vendite e iniziativa benefica fossero collegate è un modo sbagliato di gestire la beneficenza, un errore dal punto di vista etico perché si usano buone cause per il profitto, si strumentalizza il senso di solidarietà delle persone. Non era una raccolta fondi. È stata costruita per generare guadagno per due soggetti: Balocco e Ferragni.
Come avrebbero dovuto agire?
La donazione c’era stata: l’azienda poteva semplicemente comunicarla, raccontare che si stavano impegnando e che avevano fatto beneficenza per l’ospedale senza mettere in mezzo altro. E poi vendere a prezzo maggiore il pandoro targato Ferragni.
Di chi è la colpa, dunque?
Quando si fa raccolta fondi, servono almeno tre attori. Primo: l’organizzazione con un progetto su cui attrarre l’attenzione del consumatore o del donatore, rendendolo un cittadino attivo per la causa. E nel caso Ferragni questo aspetto era debole. Secondo: l’azienda che voglia fare un’azione di responsabilità sociale impegnando risorse economiche proprie o mettendo a disposizione la sua rete di vendita e i suoi prodotti. Terzo attore: i donatori, i cittadini coinvolti, che comprano il prodotto perché hanno interesse anche per la causa a cui va destinata parte del ricavato.
Manca il testimonial…
Che è il quarto attore e viene chiamato per fama, per canalizzare l’attenzione ma che non dovrebbe essere retribuito o retribuito il giusto, proprio perché orientato alla buona causa. L’obiettivo benefico dovrebbe essere al centro altrimenti si tratta di marketing e di pubblicità. Lo dimostra la donazione fatta: 50mila euro. Un’inezia rispetto agli introiti di Ferragni e di Balocco.
Perché il quarto attore è diventato così importante?
Viene sopravvalutato. Si pensa che per l’atto di donazione la vera motivazione sia l’attrattiva comunicazionale. Il donatore invece è un attore attivo, non un soggetto passivo. A convincerlo è il profilo etico che emerge dal testimonial.
Ha un esempio?
Renzo Arbore per la Lega del Filo d’oro: è credibile e quindi diventa vantaggio. Se invece si prende il primo tronista – molti cadono in questo tranello – ed è uno che non conosce neanche la condizione sociale del Paese, il rischio è che proietti la sua identità, magari nemmeno condivisa dai sostenitori della causa sociale, sulla organizzazione.
Resta che l’immagine del testimonial può però aiutare…
Alcuni cercano le campagne con onestà intellettuale e credendoci, altri no. È loro diritto, ma devono farlo nel rispetto delle norme e dei principi etici che caratterizzano il terzo settore. È un gioco pericoloso: da un lato vuoi apparire buono, ma dall’altro, se truffi, tutto ti si rivolta contro.
Tutto per giustificare i profitti delle aziende?
Esatto, per i guadagni e basta. Balocco, come fanno tutte quelle aziende che seguono lo stesso metodo, ha cercato Ferragni per smerciare con profitto a 9 euro un pandoro che si vendeva a circa 3. Per riuscirci aveva bisogno sia di un volto e di una causa importanti. È un ragionamento che c’entra poco con l’impegno sociale delle aziende e infatti quelle che fanno bene queste cose dovrebbero prendere posizione contro le campagne sbagliate. Così come le organizzazioni no profit. È stato un danno d’immagine per tutto il comparto, per la beneficenza e le raccolte fondi. Dovrebbero fare causa anche loro.

Fonte: Il Fatto Quotidiano