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“No al cristianesimo in Costituzione”: lo chiede la Chiesa

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Laicità all’incontrario, o piuttosto dove meno te l’aspetti: la vuol negare lo Stato, la esige invece la Chiesa, che insorge contro il richiamo alle radici cristiane nella Costituzione nazionale. Si tratterebbe, spiega, del presupposto per la creazione di uno stato confessionale: nulla di più lontano dall’insegnamento di Bergoglio.
Accade dall’altra parte del mondo, ma è un’altra parte del mondo che tra poco vedrà la visita proprio di Papa Francesco, quando a settembre questi sbarcherà a Port Moresby, Papua Nuova Guinea. Un paese piccolo, ma che fa da battistrada in un dibattito che non è lontano dalle accese sensibilità di molti europei e di altrettanti americani.
Questi i fatti, riferiti dal sito specialistico Asia News. Alcune settimane fa sono piovute nel parlamento locale alcune richieste di modifica del testo costituzionale approvato nel 1975, anno che vide la proclamazione dell’indipendenza di quella che fino ad allora era una colonia dell’Impero Britannico.
In particolare viene ad essere toccata l’identità culturale della nazione, che – si auspica – dovrà essere ispirata ai “principi cristiani” perché – e qui si entra nella teologia spiccia applicata ai diritti fondamentali – se esiste un’autorità, questa viene unicamente e direttamente dalla Trinità.
Di più: la Papua Nuova Guinea, attualmente “Stato Indipendente” nella dizione ufficiale, dovrebbe chiamarsi “Stato indipendente e cristiano” e imporre tra i “doveri sociali” il “rispetto, l’osservanza e la promozione dei principi cristiani”.
Il fatto è che sarà pure piccola e lontana, ma la Papua Nuova Guinea è un paese multiculturale come ormai quasi tutti i paesi non solo dell’area, ma anche del mondo occidentale e oltre. Ad essere precisi la grande maggioranza è cristiana, ma le confessioni non cristiane sono molte e soprattutto esistono le tradizioni e culture originarie della Melanesia che non sono scomparse e non hanno alcuna intenzione di esserlo.
A proporre le modifiche costituzionali, poi, sono gli esponenti di alcune comunità protestanti legate a doppio filo al mondo degli evangelici americani e alla cosiddetta Teologia della prosperità. Si tratta di una visione neo-pentecostale della Provvidenza secondo la quale Dio vuole che i suoi fedeli abbiano una vita prospera, e cioè che siano ricchi dal punto di vista economico, sani da quello fisico e individualmente felici.Individualmente.
Questo tipo di cristianesimo colloca il benessere del credente al centro della preghiera, e fa del suo Creatore colui che realizza i suoi pensieri e i suoi desideri. Insomma, Dio è in qualche modo obbligato a far ricco il suo fedele, il quale a sua volta ha il diritto di far tutto per essere ricco: Deus vult.
Inutile dire che si tratta di una variazione radicale della visione calvinista del successo economico; che è in tempi di liberismo galoppante che il “Prosperity Gospel” può effettivamente prosperare; che – infine – ci sono politici americani molto affezionati a questa visione. Uno in particolare.
Il movimento conta adepti non solo negli Usa, ma anche in Corea, nella stessa Cina, in Sudamerica e nel Pacifico meridionale. A Port Moresbury, poi, già una decina d’anni fa i suoi attivisti chiesero ed ottennero la vera e propria intronizzazione in Parlamento di una copia della Bibbia di San Giacomo, traduzione protestante delle Scritture. Ora la richiesta di modifica della stessa Costituzione. Ma c’è chi dice no.
Forte del suo rappresentare oltre un quarto della popolazione complessiva, la Chiesa cattolica ha fatto sapere di ritenere l’iniziativa “anacronistica e dirompente”, perché volta a creare uno Stato etico-religioso là dove si respira l’armonia tra le fedi e le comunità.
I vertici della locale conferenza episcopale hanno scritto una lunga lettera al presidente della Commissione parlamentare per le riforme costituzionali per denunciare il tentativo di “alterare la natura dello Stato, rendendo la Papua Nuova Guinea un Paese confessionale”.
Inevitabilmente, aggiungono, “questo significa che una versione del cristianesimo sarà la religione ufficiale riconosciuta dallo Stato e avrà la precedenza su tutte le altre religioni, fedi e pratiche, compresi i nostri valori culturali e modi di vita tradizionali”.
Si tratta di “un fatto pericoloso e preoccupante” che “oscura e addirittura cancella la nostra identità melanesiana specifica (con i suoi valori) invece di riconoscerla, celebrarla e perfezionarla attraverso il Vangelo di Cristo”.
Aggiungono i vescovi: “I cambiamenti proposti sembrano negare la nostra identità primordiale. Noi invece siamo orgogliosi di essere etnicamente e culturalmente dei melanesiani che hanno liberamente abbracciato il Vangelo di Cristo e lo hanno fatto proprio”.
“La Papua Nuova Guinea – prosegue il testo – è una nazione già unita nella sua diversità. Questa è la nostra forza, la nostra benedizione e il cuore della nostra identità nazionale. Siamo una nazione di mille tribù, culture, lingue, tradizioni e credenze con una varietà di confessioni cristiane”.
Conclusione: “l’articolo 45 della Costituzione protegge questa diversità. Qualsiasi altra strada sarà anticostituzionale, non cristiana e antidemocratica” perché “le questioni di fede e di morale non possono essere imposte per legge”.
Lezioni di modernità. L’altro giorno, in udienza, Papa Francesco ha sottolineato che in una contemporaneità spesso segnata “da egoismi e particolarismi” le diversità sono doni preziosi da condividere. Allora delle due l’una: o è un caso, o già sta preparando il viaggio in Papua Nuova Guinea.(AGI)