AGI – Un giovane genio della chirurgia che muore per overdose a soli 35 anni, l’operazione alla prostata del capo della mafia a Marsiglia, un suicidio perfetto senza impronte digitali del suicida, pentiti che concordano, un processo che discorda fino all’inverosimile, un avvocato che rivela un dettaglio fondamentale sul suggerimento di una confessione che non c’è stata. Un mistero che s’intreccia con la parabola di cosa nostra. Questa è la storia della morte di Attilio Manca.
Comincia con una frase dei genitori: “Noi siamo certi che nostro figlio Attilio sia stato ucciso e che quella droga gli sia stata iniettata da terzi”. Le parole di Angela e Gioacchino Manca indirizzate al Presidente della Terza sezione penale della Corte di appello di Roma Gustavo Barbalinardo, riaprono una storia nera del nostro Paese: la morte dell’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) Attilio Manca. L’uomo che, secondo i pentiti, operò in Francia (a Marsiglia) Bernardo Provenzano alla prostata.
Manca era un professionista affermatissimo tanto che, a soli 32 anni, aveva eseguito il primo intervento per tumore alla prostata per via laparoscopica in Italia. Era considerato un genio. La sua vita venne spezzata a 35 anni. Rileggiamo la sua storia.
È la mattina del 12 febbraio del 2004, Attilio Manca è a casa sua a Viterbo, senza vita. Overdose. Ma sin dal ritrovamento del cadavere vi sono episodi che spiegano come la sua morte non sia un suicidio, ma un omicidio ben organizzato con una serie infinita di depistaggi.
A dare l’annuncio della morte è lo zio, Gaetano Manca, al nipote (e fratello di Attilio), Gianluca, intorno all’ora di pranzo. L’uomo racconta che all’interno dell’appartamento sono state trovate due siringhe, una in bagno e l’altra nella pattumiera della cucina. Stando alle sue parole – contenute negli atti d’indagine – la comunicazione gli viene fatta da una collega del medico barcellonese, l’anestesista Giuseppina Genovese. Ugo Manca, il cugino della vittima, darà invece un’altra versione: a informarli sarebbe stato il primario dell’ospedale Belcolle di Viterbo, Antonio Rizzotto.
Le indagini vengono affidate alla squadra mobile di Viterbo (allora guidata dal dottor Salvatore Gava, condannato definitivamente per falso ideologico con abuso delle funzioni per i fatti del G8 di Genova). Conclusione, overdose. La prima cosa che si fa è quella di documentare i rapporti tra Attilio Manca e una donna romana con precedenti per droga, Monica Mileti, che aveva incontrato Manca nel pomeriggio del 10 febbraio 2004 a Roma.
Ma fra questo appuntamento ed il momento del ritrovamento del corpo c’è un buco di almeno 36 ore. Cosa è accaduto al giovane medico in questo lasso di tempo? L’ultimo segnale con il mondo Manca lo invia alla madre, con una telefonata la mattina dell’11. Telefonata che, incredibilmente, manca dai tabulati allegati alle indagini. Da allora sino alla morte nessun atto concreto. Resta la domanda senza risposta: quando morì Manca?
Torniamo a quel 12 febbraio 2004, sono le 11.45 quando il medico del 118, dottor Gliozzi, attesta il decesso di Manca nella sua abitazione. Gliozzi rileva che Manca è morto circa “dodici ore prima” (come si legge nell’annotazione dell’ufficio prevenzione generale della questura di Viterbo). Quindi, fin da subito, negli atti ufficiali Attilio Manca muore nella notte fra l’11 e il 12 febbraio 2004.
Cosa dice l’autopsia? Che Manca è morto il 12 febbraio del 2004, un’autopsia definita “lacunosissima” dalla relazione della Commissione Antimafia del 21 febbraio 2018. E per di più fatta su incarico della procura di Viterbo dalla moglie del primario di urologia che avrebbe dato la notizia della morte del chirurgo alla famiglia di Ugo Manca.
Finora abbiamo solo un dato certo: che Attilio Manca è morto per effetto di due iniezioni di eroina al polso sinistro e nell’incavo del gomito sinistro. Ma su questo unico dato certo piovono altri gravissimi dubbi.
“Io ed Attilio eravamo molto amici e ci frequentavamo anche fuori dall’ambiente ospedaliero”. È il 17 dicembre del 2010, a parlare con gli inquirenti è Massimo Fattorini, collega ed amico del medico barcellonese, che rivela un dato incredibile: “Attilio era mancino” e “nel suo lavoro utilizzava solo la sinistra, sia per scrivere che per svolgere ogni altra attività. A differenza di altri dottori mancini, che riescono ad utilizzare anche la destra, lui non poteva farlo. Attilio era un mancino puro e quindi con la destra escludo che potesse fare dei movimenti precisi come quelli di farsi un’iniezione”.
Fattorini non è l’unico a far notare la questione sinistra (in tutti i sensi). È il 18 dicembre del 2010 quando Simone Maurelli, un altro amico di Manca, viene sentito dagli investigatori: “Sono sicuro che Manca Attilio fosse mancino. Difficilmente avrebbe potuto farsi un’iniezione con la mano destra in quanto è un’operazione che richiede precisione”.
E due. Difficile pensare a una potenziale (e doppia) precisissima puntura letale fatta da un mancino con la stessa mano sinistra in due punti diversi del medesimo braccio.
Terza testimonianza. Siamo al 20 dicembre 2010, davanti alla polizia c’è Fabio Riccardi, l’infermiere che lavorava con Manca: “Sono sicuro che Manca Attilio fosse mancino e scriveva con la sinistra. Nelle occasioni che l’ho visto operare in sala operatoria o in ambulatorio Attilio usava solo la sinistra. Visto come utilizzava la destra, gli sarebbe stato difficile iniettarsi droga con quella mano”.
“Anche in riferimento all’ipotetica assunzione di eroina da parte del Manca – si legge nella Relazione dell’Antimafia – tutti i colleghi viterbesi smentivano la possibilità che l’urologo potesse essere un consumatore di droghe, dato che nessun foro era mai stato visibile sulle braccia dell’uomo da parte dei colleghi che operavano quotidianamente in sala operatoria con lui o che lo vedevano a braccia scoperte, né aveva mai manifestato alcun segnale di crisi di astinenza”.
Quindi, con buona probabilità, Attilio Manca non si drogava. Altra domanda: sulle siringhe letali sono state trovate le sue impronte?
A darci l’incredibile risposta sono sia gli atti d’indagine degli inquirenti che la relazione della commissione Antimafia: “Sulla superficie delle due siringhe non fu rilevata alcuna impronta digitale”. Ancora: “Entrambe le siringhe erano state chiuse con il tappo salva-ago e una delle due presentava perfino il tappo salva-stantuffo”. Ricapitoliamo: Attilio Manca, per suicidarsi con una doppia dose di eroina, dopo essersela inoculata, avrebbe pulito le siringhe dalle sue impronte, le avrebbe chiuse e riposte. Saremmo dunque di fronte a un soggetto che si suicida e pensa a eliminare le proprie impronte. Incredibile.
Impronte? In casa Manca c’è quella di una mano (oltre alle ovvie dell’urologo barcellonese), è quella di Ugo Manca, è su una piastrella del bagno vicino alla doccia, cioè nella stanza più umida della casa, “quindi – si legge nella Relazione Antimafia – sul materiale e nelle condizioni più improbabili per la sua permanenza”.
Ugo Manca disse di “averla lasciata a metà dicembre 2003”, ben due mesi prima della morte del cugino, perché suo ospite una notte. Impronta permanente, a quanto pare, tanto che nello stesso appartamento non sono state trovate le impronte dei genitori di Attilio Manca, ospiti del figlio a Natale 2003, e nemmeno dei suoi amici che trascorsero la serata a casa di Manca addirittura il 6 febbraio 2004 (quindi solo sei giorni prima del ritrovamento del cadavere). Strano, ma vero.
“Questo è il suicidio morale della Giustizia” dicono all’AGI Angela e Gioacchino Manca e le parole sono indirizzate al Presidente della Terza sezione penale della Corte di appello di Roma Gustavo Barbalinardo.
Qui entra in scena l’unica persona finita alla sbarra per questa storia, un personaggio che in tutto e per tutto appare in realtà marginale. Parla Cesare Planica, legale di Monica Mileti, l’unica imputata per reati connessi alla morte dell’urologo, racconta all’AGI un fatto nuovo: “La procura di Viterbo mi aveva detto ‘ma falla confessare perché noi lo qualifichiamo quinto comma ed il quinto comma si prescrive a breve’. Sennonché io l’ho spiegato alla mia assistita e lei mi ha detto ‘ma io posso confessare una cosa che non ho fatto?’. E poi ancora: “Le dico: ‘in teoria la può confessare, perché ottiene un’utilità’. Ma si può portare una a confessare una cosa che non ha fatto? Questa (la Mileti, ndr) ha pagato di non avere detto una fesseria che metteva una pietra tombale sopra a questa storia, perché nell’attimo in cui lei confessava, la storia finiva. Ora io – commenta Placanica – questo lo posso dire, ma non posso rivelare discorsi più approfonditi che si fanno fra le parti”.
La procura di Viterbo, a dieci anni dalla morte, ha promosso un processo a carico di Monica Mileti. L’avvocato Cesare Placanica, spiega: “La Mileti è una sventurata, questi hanno dovuto dimostrare severità con qualcuno e se la sono presa con lei, ma l’ipotesi accusatoria è così debole… Che sia la Mileti che abbia ceduto una dose al povero Manca il giorno dei fatti, veramente non c’è un solo elemento in condizione di provarlo. Non c’è nulla. Che il povero Manca sia morto in conseguenza di quella dose, altrettanto, non c’è nulla che lo provi”.
I genitori di Manca raccontano: “Noi, purtroppo, non siamo più parti civili. Siamo stati esclusi all’inizio del dibattimento di primo grado dal Giudice di Viterbo su richiesta del Pubblico ministero Petroselli. A causa della nostra estromissione dal processo, la sentenza nei confronti dell’imputata è stata pronunciata senza l’acquisizione di prove fondamentali, che pure erano a conoscenza del pubblico ministero e della difesa dell’imputata”.
Ma perché i genitori di Attilio Manca non sono stati ammessi, come sempre accade, nel processo come parte civile?
“La richiesta di rinvio a giudizio fu per due reati – ci spiega il loro legale, Fabio Repici: 73 dpr 309/1990 (cessione di droga) e 586 cp (morte come conseguenza di altro delitto). In udienza preliminare i familiari di Attilio Manca si costituirono parti civili come danneggiati di entrambi i reati. Furono ammessi per entrambi. Il Giudice per l’udienza preliminare rinviò a giudizio l’imputata per cessione di droga e la prosciolse per prescrizione del reato di morte come conseguenza di altro delitto. Al dibattimento, quando noi avevamo già depositato la lista testimoniale, il Pubblico ministero chiese l’esclusione della famiglia Manca, sostenendo che non erano danneggiati dal reato di cessione di droga. Così contraddicendo – spiega Repici – l’imputazione da lui stesso formulata di “morte come conseguenza di altro delitto”, che vedeva la morte di Attilio Manca (quindi l’evento dannoso per i suoi familiari) come conseguenza della cessione di droga. L’effetto fu che l’istruttoria dibattimentale si ridusse e nessuno chiese mai l’audizione dei pentiti, nel frattempo arrivati”. Sì, perché nella trama di questa storia ci sono i pentiti, tanti. Cosa dicono i collaboratori di Giustizia?
Qualche mese prima della morte del giovane Attilio, Bernardo Provenzano, superboss di Cosa Nostra e fra le menti della “trattativa” fra mafia e pezzi deviati dello Stato, venne operato alla prostata a Marsiglia, in Francia. Si trovava lì, in quei giorni, Attilio Manca?
Sono tanti, persino troppi, i collaboratori di Giustizia che parlano della morte (e della vita) dell’urologo Attilio Manca. E tutti sostanzialmente danno la stessa versione. Ma andiamo in ordine.
Il primo collaboratore che parlò dell’omicidio di Attilio Manca fu il casalese Giuseppe Setola. Setola – si legge nella Relazione della Commissione Antimafia – “riferì ai magistrati di aver appreso in carcere dal boss barcellonese Giuseppe Gullotti che il giovane medico era stato assassinato dalla mafia dopo che era stato coinvolto nelle cure all’allora latitante Bernardo Provenzano”.
Fu poi il turno del pentito bagherese Stefano Lo Verso che, nel corso del suo esame davanti alla corte di assise di Caltanissetta nel processo Borsellino quater, parlando delle cure a Bernardo Provenzano per il tumore alla prostata dell’allora latitante corleonese, fece riferimento “a una statuetta che egli aveva ricevuto dal boss corleonese e che, per la sua provenienza, poteva aiutare a fare luce sull’assassinio di Attilio Manca”.
Dopo di lui, fu la volta del collaboratore di giustizia barcellonese Carmelo D’Amico. “D’Amico – riporta l’Antimafia -, sentito dalla direzione distrettuale antimafia di Messina sul conto di Rosario Pio Cattafi, ha dichiarato che Attilio Manca è stato assassinato dopo che, per interessamento di Cattafi e di un generale legato al circolo barcellonese Corda Fratres, era stato coinvolto nelle cure dell’allora latitante Provenzano. Manca era stato poi assassinato, con la subdola messinscena della morte per overdose, da esponenti dei servizi segreti e in particolare da un killer operante per conto di apparati deviati, le cui caratteristiche erano la mostruosità dell’aspetto e la provenienza calabrese”.
Il soggetto in questione sembra essere sempre lo stesso, oramai conosciuto come “Faccia di mostro”, ovvero l’ex poliziotto, poi agente dei servizi, Giovanni Aiello.
Torniamo alla Relazione dell’Antimafia: “A questo soggetto è stato poi, ove occorresse, dato un nome dal collaboratore di giustizia calabrese Antonino Lo Giudice, il quale ha spiegato ai magistrati di aver appreso dall’ex poliziotto Giovanni Aiello che costui si era occupato, insieme ad altri delitti, anche dell’uccisione dell’urologo barcellonese Attilio Manca su incarico di tale ‘avvocato Potaffio’, facilmente identificabile in Rosario Pio Cattafi”.
Com’è noto, il nome di Aiello è legato ai più grossi delitti siciliani degli anni Ottanta e Novanta. L’ex poliziotto, già in servizio alla squadra mobile di Palermo fino al 1977 e poi ufficialmente posto a riposo per motivi fisici, è stato accusato da innumerevoli collaboratori di giustizia di essere stato un vero e proprio killer di Stato, al servizio di apparati deviati e di organizzazioni mafiose palermitane, catanesi e calabresi. Sulla sua appartenenza al mondo dei servizi segreti, è stato lo stesso Aiello a fornire conferma nel corso di alcune conversazioni intercettate dall’autorità giudiziaria. Aiello è deceduto per un improvviso infarto sulla spiaggia di Montauro, nei pressi di Catanzaro, il 21 agosto 2017, mentre era indagato dalla direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria nel procedimento “’ndrangheta stragista”.
Il quinto pentito a parlare del’omicidio Manca è Giuseppe Campo, “il quale addirittura – si legge nella Relazione Antimafia – ha rivelato di essere stato contattato per l’uccisione di un medico barcellonese, prima di apprendere che la mafia del territorio aveva poi operato diversamente, uccidendo l’urologo nella propria abitazione a Viterbo e simulando una morte per overdose”.
Simulando una morte per overdose. E nel processo a chi ha ceduto le dosi la famiglia non ha potuto partecipare. E l’imputata – Monica Mileti – per la commissione Antimafia e la famiglia sostanzialmente “non si è difesa”.
“Non riusciamo a comprendere – affermano i genitori Manca – per quali motivi l’imputata abbia rinunciato a prove che erano a lei senz’altro utili. L’unica risposta è quella che ella diede a Lorenzo Baldo, al quale dichiarò di sapere di essere un capro espiatorio. Se, però, Monica Mileti può fare ciò che ritiene anche contro di lei, quello che non possiamo comprendere, e che anzi rifiutiamo ostinatamente, è che la Giustizia italiana possa pronunciare sentenze impedendo che nei processi entrino le prove sui fatti oggetto del giudizio”. E poi la frase finale, la più amara: non si tratta più del suicidio di Attilio Manca ma del “suicidio morale della Giustizia”.
Vedi: Niente impronte, solo ombre. Storia del suicidio Manca
Fonte: cronaca agi