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Pensatore e letterato (Firenze 3 maggio 1469 – ivi 21 giugno 1527). Figlio di Bernardo, dottore in legge (1430 o 1431-1500), e di Bartolomea de’ Nelli. Grazie ai Ricordi del padre relativi agli anni 1474-87, sappiamo che studiò grammatica dal 1476, abaco dal 1480, e che dal 1481 seguì le lezioni di grammatica di ser Paolo Sasso da Ronciglione nello Studio fiorentino. Fra i classici latini, almeno storici come Livio e Giustino ebbe fra le mani fin dall’adolescenza; e alla piena giovinezza dovrebbe appartenere una lettura filosoficamente impegnativa come quella di Lucrezio, documentata dal ms. Vaticano Rossiano 884, copia autografa e firmata del De rerum natura (e dell’Eunuchus terenziano). È anche possibile che dopo il 1494 M. frequentasse le lezioni di Marcello Virgilio allo Studio. Non c’è prova che conoscesse il greco. Tra il 1492 e il 1494 cercò di stringere rapporti con Giuliano de’ Medici, destinatario, forse, del capitolo pastorale in terza rima Poscia che a l’ombra e della canzone a ballo Se avessi l’arco e l’ale. Caduti i Medici e affermatasi l’autorità di Savonarola, M. si avvicinò a quei settori di aristocrazia che, dopo una fase di ambiguo consenso, passarono all’opposizione aperta nei confronti del frate e ne provocarono la rovina. In questa luce si spiega come, entrato in concorso fin dal febbraio 1494 per un minore ufficio, subito dopo il supplizio di Savonarola (23 maggio), M. fosse designato (28 maggio) e nominato (19 giugno) segretario della seconda cancelleria; dal 15 giugno fu anche segretario dei Dieci. Può darsi che la nomina fosse favorita anche da Marcello Virgilio, dal febbraio primo cancelliere. L’attività ufficiale di M. è documentata da un’imponente mole di scritti, per lo più corrispondenza tenuta, in nome degli organi di governo centrali, con i funzionarî e i comandanti militari sparsi per il dominio fiorentino. Ma è anche più importante, per quella “experienza delle cose moderne” che viene rivendicata nella prima pagina del Principe, il servizio diplomatico che a M. toccò di svolgere presso le principali corti italiane e straniere. Poteva inoltre avvenire che a M. venissero richiesti, da membri della signoria o di organi assembleari, speciali rapporti su questioni del dominio ovvero sui risultati delle missioni oltre confine: del maggio 1499 è la prima prosa politica conservata, il Discorso sopra Pisa, scritto forse per una Consulta. Nel luglio M. ricevette il primo incarico diplomatico di rilievo, una missione presso Caterina Sforza, contessa di Forlì. L’anno dopo fu inviato, con Francesco Della Casa, in Francia per richiedere all’alleato un maggiore impegno nella guerra pisana (la missione durò dal luglio 1500 al gennaio 1501). Fra gli scritti legati a questo soggiorno francese spiccano il Discursus de pace inter imperatorem et regem (prob. apr. 1501) e i ricordi De natura gallorum (elaborato fino al 1503). Nell’autunno del 1501 M. sposò Marietta Corsini (da cui ebbe Primerana, Bernardo, Lodovico, Guido, Piero, Baccina e Totto). Nel giugno dell’anno seguente fu coadiutore di Francesco Soderini nell’ambasciata a Cesare Borgia, allora impadronitosi di Urbino; dall’ottobre 1502 al gennaio 1503 svolse una seconda legazione al Valentino, in coincidenza con la ribellione dei luogotenenti che il Borgia domò ricorrendo all’astuzia e alla crudeltà. Dall’ottobre al dicembre del 1503 M. fu in missione a Roma per seguire il conclave da cui uscì eletto Giulio II; dal gennaio al marzo 1504 fu di nuovo alla corte del re di Francia. Intanto, nel settembre 1502, era stato eletto gonfaloniere perpetuo della repubblica fiorentina Piero Soderini, cui M. si legò di sincera, ma non acritica, fedeltà. Nella discussione e nei conflitti, ben presto aspri, fra il gonfaloniere e gli ottimati, M. intervenne indirettamente attraverso la redazione di promemoria e documenti consultivi (come le importanti Parole da dirle sopra la provisione del danaio, marzo 1503, e il discorso Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati [titolo non originale], del luglio 1503) e in prima persona col poemetto in terzine dantesche Compendium rerum decemnio in Italia gestarum (finito nel novembre 1504, ma dato alle stampe solo nel 1506 col titolo Decemnale), che è una vivace cronistoria degli anni 1494-1504. Come provano anche gli ultimi versi del poemetto (“… ma sarebbe il cammin facile e corto / se voi il tempio riaprissi a Marte”), M. si dedicò con speciale passione al progetto di una milizia “propria” della repubblica, ossia formata da cittadini e sudditi, non da mercenarî né da alleati stranieri. Al progetto erano fortemente avversi gli ottimati; nonostante il sostegno del cardinale Francesco Soderini, soltanto nel dicembre 1505 si poté dare inizio al reclutamento e all’addestramento dei primi contingenti. La provvisione definitiva fu votata il 6 dicembre 1506, sulla base di un documento steso da M. (La cagione dell’ordinanza). Tra l’agosto e l’ottobre di quell’anno M. aveva svolto un’altra legazione di grande rilievo, ancora presso la corte papale, ovvero al seguito di Giulio II in marcia attraverso l’Umbria e la Romagna per una campagna contro i signorotti locali: agli eventi di quella spedizione allude l’importante epistola a Giovan Battista Soderini, nota come Ghiribizzi (13-27 settembre), la cui materia passa in gran parte nel coevo capitolo Di Fortuna, in terzine, indirizzato al medesimo Soderini. Nominato in seguito (12 gennaio 1507) cancelliere dei Nove ufficiali della milizia fiorentina, M. si occupò ancora del reclutamento nel contado. Nel giugno fu designato per una missione presso l’imperatore Massimiliano, ma subito dopo, per l’opposizione della parte aristocratica, revocato e sostituito da Francesco Vettori (è forse di questi tempi un capitolo in terzine intitolato appunto all’Ingratitudine; motivi analoghi ritornano nel Canto dei ciurmadori, scritto per il carnevale del 1509; fra il 1502 e il 1524 M. scrisse altri cinque canti carnascialeschi). Solo alla fine del 1507 il gonfaloniere riuscì a far partire per il Tirolo anche M., con funzioni di segretario. Al rientro in patria, nel giugno 1508, questi stese un Rapporto di cose della Magna (in seguito trasformato nel Ritracto di cose della Magna, 1509-12). Tornato ai suoi uffici militari, ebbe parte notevole nella riconquista di Pisa (4 giugno 1509) dopo quindici anni di ribellione. Nel novembre-dicembre fu a Verona presso l’imperatore, che era intervenuto personalmente nella guerra della lega di Cambrai contro Venezia; a questo soggiorno appartiene il capitolo Dell’ambizione, dedicato a Luigi Guicciardini. Nel giugno-ottobre tornò per la terza volta in Francia: a missione conclusa, cominciò a elaborare un Ritracto di cose di Francia (lasciato, imperfetto, dopo il 1512). Intanto il contrasto fra il papa e i Francesi si era aggravato e la posizione della repubblica fiorentina si faceva sempre più difficile. A M. toccarono nuove incombenze militari e delicati servizî diplomatici: in Francia (settembre-ottobre 1511), quindi a Pisa (2-11 novembre) presso il concilio dei cardinali contrarî a Giulio II, per indurli a lasciare il territorio fiorentino. Dopo la terribile battaglia di Ravenna e il ritiro dei Francesi dalla Lombardia, forze militari spagnole al seguito del cardinale Giovanni, capo della famiglia de’ Medici e legato pontificio, entrarono in Toscana (agosto 1512). Le fanterie fiorentine furono annientate e Prato sottoposta a uno spaventoso saccheggio (29 agosto); due giorni dopo Piero Soderini dovette fuggire da Firenze. Dopo un breve interregno, i Medici presero il potere (16 settembre). M. aveva esortato i vincitori a continuare la linea antiottimatizia del Soderini (appello Ai Palleschi, fine ottobre – inizio di novembre), ma il 7 novembre fu cassato dall’ufficio e il 10 condannato a un anno di confino entro il dominio fiorentino. Sospettato di aver preso parte alla congiura ordita da A. Capponi e P. Boscoli contro i Medici, il 12 febbraio del 1513 fu arrestato e torturato. Sembra che rischiasse il carcere perpetuo e lo evitasse grazie a Giuliano de’ Medici (cui M. inviò dalla prigione due sonetti), e fu condannato a pagare una malleveria. Ma, dopo pochi giorni, poté uscire di prigione grazie all’amnistia seguita all’elezione papale di Giovanni de’ Medici (Leone X, 11 marzo). M. si ritirò nel podere dell’Albergaccio, a Sant’Andrea in Percussina. E qui, mentre tentava in ogni modo di ottenere qualche incarico dai nuovi signori, soprattutto attraverso l’amicizia di due fautori medicei come i fratelli Paolo e Francesco Vettori, compose forse un trattato sulle repubbliche (destinato a trasfondersi nei Discorsi: v. oltre), un secondo Decennale (incompiuto), la “memoria“, o “novella tragica”, sul Tradimento del Duca Valentino al Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo et altri (titolo non originale), e soprattutto il breve trattato De principatibus, universalmente noto con il titolo che gli applicò la stampa romana del 1532: Il Principe. La prima parte dell’opuscolo (capitoli I-XI) spiega quali siano i generi dei principati: ereditarî, nuovi, misti di una parte antica e di una nuovamente acquisita; quali i modi di tale acquisto: virtù e forze proprie, fortuna con forze altrui (il settimo capitolo è imperniato sulla figura del Valentino, che ebbe il principato grazie al padre, Alessandro VI, e alla morte di lui lo perdette, nonostante i suoi gesti di eccellente virtù politica), il delitto, il favore dei concittadini. Dopo i tre capitoli dedicati ai diversi tipi di esercito (mercenario, ausiliario, proprio, misto), M. discute le qualità per cui un principe, ovvero in generale un capo politico, è lodato o vituperato: contro la tradizione moralistica, l’autore afferma il valore supremo della “verità effettuale”, cioè la necessità di affrontare gli altri uomini per quello che sono e non per quello che dovrebbero essere. Infine, spiegato perché i signori d’Italia hanno perso i loro stati di fronte alle invasioni straniere (cap. XXIV) e riassunta la propria complessa dottrina della fortuna (cap. XXV), M. rivolge un’appassionata esortazione alla casa dei Medici perché guidi una riscossa italiana contro il “barbaro dominio” di Spagnoli e Svizzeri. Il libretto fu concepito e steso tra l’autunno del 1513 e l’aprile del 1514; doveva essere indirizzato a Giuliano, ma infine lo dedicò al giovane Lorenzo di Piero de’ Medici, il futuro duca di Urbino, che dall’estate del 1513 reggeva la signoria medicea in Firenze. Dopo qualche positivo cenno di riscontro (ai primi del 1515, M. fu consultato in materia militare e compose i Ghiribizi d’ordinanza), dallo stesso centro del potere mediceo, ossia dalla corte di Roma, venne un fermo diniego a ogni riabilitazione di M. (febbraio del 1515). Nei mesi successivi M. si accostò, pertanto, a un gruppo di giovani letterati, di ispirazione repubblicana, che si riuniva nei celebri Orti Oricellari attorno a Cosimo Rucellai. A quest’ultimo e a Zanobi Buondelmonti sono dedicati i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1513-17 circa), il capolavoro machiavelliano, grandiosa opera di meditazione storico-politica in forma di libera glossa al testo liviano. I medesimi Cosimo e Zanobi, con Battista della Palla e Luigi Alamanni, sono interlocutori accanto al protagonista Fabrizio Colonna nei dialoghi De re militari (più noti come Arte della guerra, compiuti tra la fine del 1519 e l’estate del 1520), in cui è ribadita la necessità di ritornare ai principî dell’arte militare romana, e soprattutto al modello della “popolazione armata” contro l’uso moderno dei mercenarî, oltre al predominio della fanteria contro quello della cavalleria e dell’artiglieria. Sul versante schiettamente letterario M. attese in questi anni all’amaro poemetto in terzine L’asino d’oro (incompiuto) e al volgarizzamento dell’Andria di Terenzio; scrisse inoltre la splendida Favola misogina di Belfagor arcidiavolo, ma anche una raffinata serenata in ottave. Dopo la morte di Lorenzo (4 maggio 1519) la diffidenza della famiglia dominante nei confronti di M. parve finalmente attenuarsi. Grazie ai buoni uffici di Lorenzo Strozzi fu ricevuto da Giulio de’ Medici (marzo del 1520); all’incirca nello stesso periodo, fu rappresentata in Firenze la Mandragola, che subito dopo papa Leone volle vedere anche a Roma (come ricorda P. Giovio). Quella che è parsa a molti la migliore commedia del nostro Rinascimento mette in scena la beffa giocata dal parassita Ligurio ai danni dello stolto messer Nicia, che finisce per mettere, con le proprie mani, nel letto della moglie Lucrezia il giovane Callimaco di lei innamorato; attraverso una trama serratissima, di estrazione decameroniana, la Mandragola si caratterizza per la rappresentazione grottesca di un mondo affatto spoglio di valori, in cui la spicciola razionalità dei beffatori mette in amara caricatura le “regole” della grande politica. Nell’estate del 1520 M. svolse una missione semiufficiale a Lucca, componendo in quell’occasione un Sommario delle cose di Lucca e un esercizio di prosa storica, la Vita di Castruccio Castracani, dedicata a Z. Buondelmonti e Luigi Alamanni. L’8 novembre, infine, fu “condotto” dallo Studio per comporre gli annali fiorentini e sbrigare altre incombenze politico-letterarie (fra cui sarà da considerare anche il parere sulla riforma costituzionale, Discursus florentinarum rerum post mortem iunioris Laurentii Medices, 1520-21). Va registrata anche la missione del maggio 1521 al capitolo dei Frati minori in Carpi per conto degli Otto di Pratica, soprattutto perché in quella occasione si approfondì l’amicizia fra M. e Francesco Guicciardini, allora governatore di Modena, e tra i due cominciò a intrecciarsi uno scambio epistolare straordinario per finezza psicologica e vivacità letteraria (altrettanto importanti in questo senso sono alcune lettere di M. a Francesco Vettori risalenti agli anni 1513-14). Nell’agosto seguente, M. poté stampare L’arte della guerra, presso Giunti di Firenze, con dedica a Lorenzo Strozzi. Mentre continuava a lavorare agli annali fiorentini, intervenne ancora nel dibattito sulla nuova costituzione (Minuta di provvisione dell’aprile 1522); poco dopo, tale dibattito si concluse bruscamente con la scoperta e la repressione di una congiura antimedicea ordita da Z. Buondelmonti e L. Alamanni: lo stesso M. ne ebbe qualche “imputazione”, se non un vero e proprio sospetto di complicità. Di nuovo tornò a concentrarsi sull’opera letteraria e nel giugno del 1525 presentò al dedicatario Giulio de’ Medici, che dal novembre del 1523 era salito al soglio pontificio col nome di Clemente VII, gli otto libri delle Istorie fiorentine: queste vanno dalla fondazione della città al 1492, ma hanno per vero soggetto il conflitto civile in Firenze, dallo scontro fra guelfi e ghibellini alla vittoria dei Medici; M. ripensa la storia della sua città, straziata dalla partigianeria, a contrasto con quella di Roma antica. Nel gennaio del 1525 M. aveva fatto rappresentare a Firenze la commedia amorosa Clizia, basata sulla Casina di Plauto. All’autunno del 1524 potrebbe invece risalire un curioso Dialogo sul “fiorentinismo” di Dante, con cui M. volle intervenire nelle polemiche linguistiche del tempo (l’autenticità del testo è stata a lungo discussa). La situazione politica andava intanto facendosi più cupa, dopo la sconfitta dei Francesi a Pavia (24 febbraio 1525) da parte di Spagnoli e Imperiali. M. fu inviato in Romagna, presso F. Guicciardini, per organizzarvi la milizia (giugno); nell’aprile del 1526 fu nominato cancelliere dei procuratori alle mura. Nel maggio, a Cognac, si strinse una lega tra il papa, i Fiorentini, i Francesi e i Veneziani contro l’imperatore Carlo: presto la guerra si accese in Italia settentrionale e M. seguì con varie incombenze le vicende belliche. Sembra si trovasse a Civitavecchia quando, nel rovescio generale della lega (il 6 maggio 1527 Roma venne messa a sacco), i Medici furono scacciati da Firenze e fu restaurata la repubblica (17 maggio). I nuovi governanti, di estrazione savonaroliana, non erano favorevoli a M., che non fu richiamato in ufficio. Egli era, in effetti, già minato nel fisico e si spense (“burlando”, secondo la leggenda) il 21 giugno tra i pochi amici rimasti: Buondelmonti, Alamanni, Strozzi. Fu sepolto in Santa Croce l’indomani. ▭ Assai poco sappiamo, come si è visto, della giovinezza di M. e della sua formazione culturale. Fin dai primi scritti risulta percepibile un modo caratteristico di impostare l’analisi politica, sulla base di una considerazione realistica dei rapporti fra gli individui e fra gli stati per un verso e, per l’altro, di un confronto razionale fra i casi moderni e l’esempio degli antichi Romani. Alcuni capitoli dei Discorsi (I, 5-6) sono imperniati proprio sul confronto fra Venezia e l’antica Roma. La debolezza militare della prima è il prezzo della costituzione aristocratica con cui Venezia ha voluto escludere da sé i conflitti interni. L’antica Roma si dette invece una costituzione in cui alla plebe era concesso un potere rilevante: il che si tradusse, per un verso, in una sempre più pesante conflittualità interna, ma, per l’altro, in una straordinaria potenza militare. La disunione e la debolezza dell’Italia del suo tempo erano causate dalla presenza in essa di una entità come la Chiesa di Roma che non aveva potuto unificarla sotto di sé, dati i suoi limiti insuperabili di “principato ecclesiastico”, ma aveva ben saputo render vani, appellandosi ad alleati stranieri, tutti i tentativi che altri, dai Longobardi ai Veneziani, avessero operato in quella direzione (Discorsi I, 12). La situazione italiana richiedeva una guida politica ferrea e consapevole. Nella recente storia era passato, fugace come una meteora, quel Cesare Borgia che aveva offerto, a dire di M., un limpido esempio delle virtù necessarie al “principe nuovo”: aveva egli soprattutto dato la prova, nella sua Romagna, che era possibile domare l’anarchia feudale coll’opportuna ferocia e spietata determinazione, e conquistare in tal modo l’amore dei popoli finalmente uniti e pacificati (Principe VII). Al principe nuovo Machiavelli non prospettava (come tanti, prima di lui, avevano fatto) i principî di un’etica pubblica riferita a “come si dovrebbe vivere”, ma le crude leggi dell’operare politico dettate dalla “verità effettuale della cosa” (Principe XV). La verità effettuale della storia è il conflitto: fra gli stati, fra i gruppi sociali, fra gli individui, si combatte una lotta senza soste e senza regole (a meno che un potere superiore non costituisca, appunto, delle regole e obblighi gli altri a rispettarle). Nella dimensione della politica l’unica antitesi dotata di senso è quella che oppone alla mera violenza della dissoluzione il comando razionale della forza: tale valore positivo va dunque perseguito con totale inflessibilità, anche quando ciò obblighi a “entrare” in azioni cui la coscienza morale dà il nome di “male” (Principe XVIII). Il principe nuovo e, in generale, l’uomo di stato si muovono per un campo avvolto da una profonda zona d’ombra, da un margine di rischio, in cui si annidano le forze e le decisioni degli avversarî attuali e potenziali, un campo che solo in parte può essere sondato e distinto dalla ragione: resta un momento incalcolabile, rispetto al quale l’uomo politico non può far altro che tendere al massimo la sua capacità di resistenza. Questo momento non distintamente calcolabile e prevedibile M. chiama “Fortuna”. La Fortuna può schiantare ogni cosa: ma la Virtù del politico deve allestire tutti “i ripari e gli argini” che sia in grado di alzare perché l’urto delle forze avverse ne venga, se non stornato, almeno attenuato (Principe XXV). La teoria politica di M. non si presenta in forma di “sistema”, ma come vivo svolgimento di pensieri che dà, ai temi fin qui esposti, sviluppi complessi e variamente tormentati nelle diverse opere e anche in più luoghi della medesima opera. Si pensi ai varî “volti” che presenta la Fortuna in diversi capitoli dei Discorsi (II, 1; II, 29; II, 30; III, 9; ecc.); oppure a come trascolori di libro in libro, nella medesima opera, il grande tema della “imitazione“. Fin dal proemio al libro I, M. espone il doppio motivo del permanere e del mutamento; il mondo e gli uomini non hanno mutato “moto, ordine e potenza” rispetto a come “erano anticamente” e tuttavia della antica virtù “non è rimasto alcun segno“. Nel corso del primo libro, il motivo del permanere, su cui è costruita l’idea che Roma antica rappresenti un modello effettivo di perfezione politica, riesce nel complesso a mantenersi dominante. Nel libro successivo, invece, il suo dominio appare assai difficile e incerto. Nel secondo proemio, l’atto dell’imitare non è più proposto come termine di un valore autosufficiente ma è condizionato dall’aprirsi, o non aprirsi, di una conveniente “occasione”, e anzi si dice, a chiare lettere, che nel presente tale occasione non è data “per la malignità de’ tempi e della fortuna”. Nel terzo proemio, infine, la nota dell’imitazione tace: la regola, lì esposta, del “ridurre ai principi”, del riportare le costruzioni storiche, come gli stati, alle fonti etico-politiche della loro identità, in tanto può essere prospettata a colui che si trovi ad agire entro un dato “corpo” statuale, in quanto essa stessa tuttavia consegni ciascun “corpo” all’identità specifica e intrascendibile che nel suo “principio” è custodita. L’idea di “imitazione” tramonta così in una più drammatica, non bene esplicita e chiarita nozione del nesso che lega sapere storico e prassi politica. Le maggiori opere machiavelliane furono date alle stampe, a Roma e Firenze, nel 1531-32, soprattutto come eccellenti prove della civiltà letteraria fiorentina. Sul piano della cultura politica, invece, la lezione di M. subì, in Italia, una dura sconfitta, perfezionata con la messa all’Indice del 1559. I capitoli più significativi della fortuna di M. sono perciò legati alla storia dei grandi stati europei: dalla formazione dello stato nazionale francese (J. Bodin), alla rivoluzione inglese (J. Harrington), alla rinascita tedesca dell’Ottocento (J. G. Fichte, G. W. F. Hegel). L’Italia del Risorgimento riscopre M. con U. Foscolo e, soprattutto, con le pagine di F. De Sanctis, che attribuiscono al “Segretario fiorentino” un ruolo di protagonista nella storia dello spirito nazionale.
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