di Renato Costanzo Gatti
Premessa
Il governo è chiamato a dare una risposta sul come utilizzare i fondi Next generation eu. Due sono i principi fondamentali che sarebbe bene seguire nell’indicazione dell’utilizzo di quei fondi: a) i fondi vanno investiti e non spesi (essi non possono essere utilizzati per coprire la spesa corrente e se lo fossero ci sarebbero negati), b) neppure un euro deve essere dato a fondo perduto (sia come sussidio, o sconto fiscale o credito di imposta) ma ogni euro che pur va dato alle imprese, va dato sotto forma di partecipazione azionaria o societaria con il raggiungimento del triplice obiettivo di 1) mantenere alla comunità i fondi raccolti dalla comunità, 2) cominciare a dare attuazione all’art.46 della costituzione e 3) utilizzare i frutti degli investimenti per finanziare un Reddito di cittadinanza universale.
Ora vorrei però entrare un po’ più nello specifico dei principi ispiratori cui il governo dovrebbe ispirarsi nell’elaborazione di questo splendido esercizio di programmazione che non può essere, come temo possa essere, un riassunto delle indicazioni venute dai singoli ministeri o da informali gruppi di potere. Non ritengo assolutamente di poter dare una soluzione a questa bellissima sfida, penso solo di dare un mio contributo.
Innanzitutto partirei da una analisi della situazione del nostro Paese per individuare i punti deboli da correggere e le strategie da adottare.
La situazione del nostro Paese
Viviamo in un Paese che non cresce ormai da decenni; la crisi del 2007 ci ha fatto perdere livelli di PIL che ancora non abbiamo recuperati (contrariamente a tutti gli altri paesi europei che hanno recuperato e superato i livelli precrisi); la crisi del Covid rischia di farci ricadere ancora più indietro, a livelli irrecuperabili. Certo il PIL è un indice grezzo, ma non possiamo farne a meno: dobbiamo puntare su una crescita permanente e significativa del PIL e per realizzare questo obiettivo dobbiamo capire cosa non funziona nel sistema Paese da qualche decennio in qua.
Vediamo di abbozzare una prima diagnosi: non cresciamo perché ci troviamo in una spirale negativa che parte da bassi livelli produttivi per debolezza della
produttività, che non cresce perché si preferisce cavalcare il basso costo della mano d’opera cui conseguono bassi salari che non alimentano la domanda interna e quindi non spingono le imprese ad investire ritornando all’inizio della spirale. L’unica nota positiva sta nelle esportazioni ma queste sono realizzate da quelle imprese che hanno innovato.
Un’altra ragione che caratterizza il nostro declino è la scarsa propensione del capitale a reinvestire i profitti realizzati nel settore produttivo per spostarli negli investimenti finanziari ritenuti più produttivi, anche se la deflagrazione della “economia di carta” del 2007 dovrebbe dimostrarci quanto siano rischiosi quegli investimenti che creano, come dice Paolo Leon, accumulazione ma non creano ricchezza. La crescita dell’economia di carta rispetto all’economia delle “cose” è sempre alla base delle bolle speculative.
Un ulteriore componente psicologico-culturale, conseguente al punto precedente, è la scissione del “padrone” in due figure: a) l’imprenditore che pensa schumpeterianamente a migliorare la sua impresa, ad innovarla e renderla sempre più efficiente, venendo così a rivestire il ruolo di figura primaria nel mondo del lavoro, b) il capitalista cui nulla interessa l’impresa se non come fonte di profitti da dirottare nella finanza, nella speranza di fruttifere speculazioni. L’impresa diviene quindi solo una fonte di fondi da sfruttare, negandole nel contempo quegli investimenti che invece l’imprenditore intenderebbe fare. Nasce quindi una contraddizione tra imprenditore e capitale incastrata tuttavia nel familismo della nostra economia dove le due figure sono spesso rappresentate dalla stessa persona.
Un ultimo elemento è rappresentato dalla filosofia dell’Unione Europea e dallo statuto della BCE che nella loro ispirazione liberista ritengono ancora valide le argomentazioni sulla negatività dell’intervento dello Stato, legati come sono all’ottusa ideologia del libero mercato. Solo con il Next generation eu sembra che qualcosa si stia muovendo, ma ciò tra mille difficoltà, prima tra paesi cicala e paesi frugali e poi tra paesi occidentali e paesi dell’est sovranista.
La produttività
Vediamo i dati di fonte Istat:
Periodo
2003-2009 -0.2
Valore aggiunto
Produttività lavoro
-0.3
Produttività capitale
-1.7
Produttività fattori
-0.8
2009-2014 -0.4 0.9 0.0 0.6 2014-2019 1.3 0.2 0.8 0.4
La produttività totale dei fattori ha registrato una variazione pressoché nulla ma dieci volte inferiore rispetto a quella del resto d’Europa; la produttività del lavoro è aumentata dello 0.3% in media ogni anno tra il 1995 e il 2019, contro l’1,6% dell’UE a 28. La produttività del capitale ha fatto registrare nello stesso periodo un calo medio annuo dello 0.7%.
Nei modelli classici di Harrod-Domar la produttività è ignorata ed è considerata come una componente esogena, ignorando quindi una delle chiavi dello sviluppo. Inoltre il modello ignora il fatto che non necessariamente il risparmio si trasforma in investimenti in particolare in quelli produttivi (parliamo della trappola della liquidità), ignora quindi la dialettica costo del lavoro – costo dei macchinari e da ultimo non considera che nell’economia moderna non è più il risparmio che crea gli investimenti, ma sono gli investimenti a debito che creano quel risparmio con cui ripagare il debito stesso.
Meglio allora considerare il modello di Sylos Labini in cui la molla dello sviluppo è rappresentato dalla produttività rappresentata dalla funzione:
p = a+ bY + cS/Pma
dove p è la produttività; a,b e c sono costanti empiriche; bY rappresenta l’effetto Smith, ovvero la diminuzione dei costi unitari prodotti dall’aumento della produzione stante il fatto che i costi fissi si spalmano su più unità; S/Pma è il raffronto fra salari e costo delle macchine per cui un aumento del costo del lavoro spinge l’impresa a produrre con macchinari che aumentino la produttività in modo da compensare l’aumentato costo del lavoro. Non sottovalutiamo il fatto che l’aumento della produttività nel breve ha ripercussioni negative sull’occupazione, ma siamo realisticamente convinti che senza aumento della produttività il paese viene emarginato con effetti ancor più devastanti sull’occupazione.
La funzione della programmazione
Da decenni il PIL ristagna, la produttività non cresce e la crisi Covid rischia di aggravare la nostra situazione. Scrive il prof. Daveri, docente di Macroeconomia
alla Bocconi: “è plausibile che si vada incontro non con una recessione ma con una riorganizzazione del mondo produttivo, con attività che spariscono e altre che guadagnano importanza rispetto al passato in modo che non riusciamo neppure a immaginare ancora. E’ un grande rimescolamento i cui effetti netti in termini di creazione di produttività del lavoro saranno il risultato della distruzione in atto”.
Ma quella del prof. Daveri è la previsione di una situazione in cui lo Stato non si erge a guida dell’economia, indicando filoni produttivi da rafforzare e finanziando con partecipazioni azionarie o societarie le imprese che seguiranno le indicazioni dei filoni produttivi da perseguire. Lo sviluppo di attività nel quadro di un grosso lavoro di programmazione indicherà la via per esaltare le vocazioni produttive del nostro Paese, superando l’asfittica stagnazione in cui il nostro paese si trova oggi per una pregiudiziale ostilità all’intervento pubblico fomentata da una oziosa ideologia mercatistica. Se lo Stato riuscisse in questo compito, avrebbe colto l’opportunità della distruzione schumpeteriana per ridare al paese un percorso di rinascita.
E l’Europa?
Certo che se l’Europa invece di lasciare ai singoli paesi le scelte per l’uso del Next generation Eu, sviluppasse un progetto programmatorio in cui indica ed esalta le vocazioni produttive dei singoli paesi, darebbe forse una risposta più razionale che, oltre a fornire forze nella divisione internazionale del lavoro, supererebbe il mercantilismo nostrano. Per esempio il nostro Paese potrebbe esaltare la sua vocazione nella meccatronica, nella robotica, nelle biotecnologie, negli elettromedicali.
Il socialismo, ai nostri giorni, non ricerca la sua rivoluzione nella romantica presa del palazzo d’inverno, ma cerca la sua rivoluzione nella razionalità economica resa possibile dal progetto gramsciano di trasformare i subalterni in dirigenti, nella creazione di Capitale umano che si opponga con le sue forze di imprenditori e lavoratori alle resistenze del capitale che vorrebbe volgere altrove le sue attenzioni.
La razionalità sarà anche in grado di affrontare la sfida della robotizzazione gestendo la sostituzione di lavoro umano con robots in modo che tale passaggio si presenti come una liberazione dal lavoro per dedicare le nostre forze fisiche e psichiche a fini più elevati, evitando che invece il capitale gestisca questo passaggio come una nuova barbarie.