La scienziata e la lotta ai tumori con il progetto dell’Airc
Di Margherita De Bac
Che il suo futuro non fosse il ricamo Francesca Demichelis lo ha capito quando, dalla scuola elementare presso le suore Marcelline, in classe solo femmine, è stata iscritta su sua insistenza alle medie in un istituto pubblico. «Alla lezione di applicazioni tecniche il professore ci spiegò il funzionamento dei circuiti elettrici e ci fece esercitare in laboratorio. Mi appassionai e mi resi conto che avrei potuto scegliere qualsiasi professione. Perché nella vita è tutta questione di metodo». Il suo metodo oggi questa cinquantenne lo applica alla ricerca sui tumori. Nata a Bolzano, laureata in fisica a Trento, appassionata di sci, si è appena aggiudicata uno dei grant finanziati da Airc e altre associazioni consorelle all’estero (Spagna e Regno Unito).
Come verranno utilizzati questi soldi?
«Il nostro progetto, Accelerator Award 2018, prevede di sfruttare la biopsia liquida nel tumore avanzato della prostata come strumento per valutare sia il trattamento migliore per ogni paziente sia la risposta in termini terapeutici. Un altro anello della medicina personalizzata. Siamo stati premiati assieme ad altri 4 centri clinici in Italia e uno all’estero. L’obiettivo è mettere a punto un test basato sull’analisi del sangue. I primi risultati sono molto incoraggianti». Tutto iniziò alle medie. «Proprio così. E al liceo sono stata fortunata. L’insegnante di fisica, appassionato di filosofia, mi ha trasmesso l’amore per la matematica e il metodo alla base di queste discipline. Della fisica mi è piaciuta subito la possibilità di ridurre a elementi semplici sistemi molto complessi».
Qualcuno in famiglia le ha trasmesso il gene del ricercatore?
«Macché. Papà ufficiale, mamma insegnante di lettere, sorella maggiore orientata verso studi di economia».
Cosa c’entra la fisica con la medicina?
«Noi utilizziamo approcci sperimentali e di calcolo per verificare meccanismi che possono avere applicazioni terapeutiche. Cerchiamo all’interno delle cellule tumorali i bersagli molecolari che le rendono vulnerabili ai farmaci. Nell’oncologia molti sono noti ma moltissimi altri devono essere individuati. Con il progresso tecnologico la collaborazione fra fisici e medici è cruciale, fino a 10-20 anni fa era impensabile».
Dal 2005 al 2012 è andata all’Harvard Medical School di Boston dove ha conseguito il dottorato. Come mai è tornata in Italia?
«Per stare accanto a mio marito anche perché contemporaneamente si sono aperte le condizioni per lavorare nel dipartimento di biotecnologie dell’università di Trento. Sono contenta di questa scelta. Il matrimonio però è finito due anni fa. Non ho figli, non sono venuti. Mi dispiace».
Cosa fa il direttore del laboratorio di ricerca in Oncologia computazionale e funzionale?
«Siamo una squadra multidisciplinare. La metà di noi lavora al bancone, l’altra metà al computer, fra fisica e matematica. È questo il futuro della ricerca biomedica. Io sono sempre in giro. Abito a Bolzano e le ore di svago le dedico alla montagna tra Val Gardena, Val di Fassa e Val di Sole. Una meraviglia».
La sua infanzia?
«Ho frequentato la scuola in lingua italiana, ma sono cresciuta in un ambiente bilingue. Vivere in una piccola città dalla doppia cultura mi ha aperto la mente. In Alto Adige anche allora sentivo chi si lamentava per il bilinguismo che per me è stata un’opportunità».
Fonte: Il Corriere