130 anni fa, il 14 marzo 1891, undici immigrati italiani vennero barbaramente assassinati dalla folla perché considerati responsabili dell’uccisione del capo della polizia Hennessy. Erano innocenti
Di Matteo Dalena fonte@storicang.it/
Il 14 marzo 1891 a New Orleans, in Louisiana, «diverse migliaia di cittadini fra i più rispettabili, i migliori e addirittura i più osservanti della legge» assaltarono la prigione locale e uccisero undici immigrati italiani lì detenuti. Le vittime erano in maggioranza siciliani: tre di loro avevano scelto di mantenere la cittadinanza italiana, mentre altri otto avevano ottenuto quella americana. All’origine di quello che è definito il più grave episodio di linciaggio ai danni di italiani negli Stati Uniti, e uno dei più cruenti della storia americana, stavano motivazioni di carattere politico ed economico.
Gli italiani della cosiddetta “grande emigrazione” (dal 1861 agli inizi del XX secolo) avevano occupato interi quartieri delle città statunitensi e la loro presenza era percepita dalle autorità e dalla stampa come un’indesiderata zavorra, fonte di delinquenza, vizio e sporcizia. Tuttavia il motivo che innescò la rabbia della popolazione di New Orleans spingendola al massacro fu l’assoluzione della maggior parte degli undici uomini alla sbarra nel processo per l’uccisione del capo della polizia di New Orleans, David C. Hennessy, avvenuta il 15 ottobre dell’anno precedente. Come scrisse più di quarant’anni fa il pioniere degli studi italo-americani Richard Gambino: «Nei confronti degli italo-americani, il linciaggio di New Orleans fu allo stesso tempo un mezzo per limitare la loro affermazione, la partecipazione e le possibilità nell’ambito della comunità americana dell’epoca».
Alcuni mesi prima del massacro, il 16 ottobre 1890, il capo della polizia metropolitana di New Orleans David Hennessy, irlandese di 33 anni, mentre si trovava per strada di ritorno da un saloon fu raggiunto da una raffica di colpi di fucile. Ferito all’addome fu portato in ospedale e sotto morfina disse ai medici: «Mi hanno tirato, ma io ho risposto. Ho fatto del mio meglio». Poche ore prima di morire, il poliziotto avrebbe trovato la forza di bisbigliare all’amico Bill O’Connor un importante dettaglio circa i presunti assalitori: «Dagoes». Quel bisbiglio fece scattare una retata che nella notte portò a centinaia di arresti nella comunità siciliana di New Orleans.
La xenofobia anti-italiana negli Stati Uniti di fine XIX secolo aveva confezionato per gli immigrati, in prevalenza provenienti dalle regioni meridionali, un’infinità di vignette e soprannomi infamanti. Erano «mezzi neri» che in un’ipotetica scala razziale stavano appena un gradino più in alto degli individui dalla pelle scura. Ma l’epiteto più diffuso ai loro danni era dagoes. Il termine dago indicava infatti l’accoltellatore e derivava probabilmente da dagger (pugnale), oppure secondo altri rimandava all’espressione «they go», ovvero «[finalmente] se ne vanno».
Ma c’è anche chi fa derivare l’espressione dal tipico nome latino Diego. A New Orleans il poliziotto Hennessy ebbe certo a che fare con i dagoes: aveva fatto arrestare un brigante siciliano e si era guadagnato la nomina a capo della polizia in una città corrotta. All’epoca due bande italo-americane – i Provenzano e i Matranga – si contendevano il controllo del porto di New Orleans e si diceva che il capo della polizia parteggiava per l’una o l’altra a seconda di chi lo pagava di più. Inoltre, la mattina in cui trovò la morte, Hennessy avrebbe dovuto testimoniare al processo per il ferimento del figlio di Charles Matranga. In molti sostenevano che il poliziotto fosse “a libro paga” dei Provenzano.
Caccia all’italiano
A seguito dell’uccisione di Hennessy la colonia italiana di New Orleans (30mila membri su una popolazione cittadina di oltre 242mila abitanti) fu messa in subbuglio con centinaia di arresti indiscriminati sulla base di informazioni estorte sotto maltrattamenti. Correva voce che per sgominare la cosiddetta “mano nera”, organizzazione mafiosa dedita alle estorsioni cui si diceva fossero affiliati i presunti assassini di Hennessy, il sindaco della città Joseph Ansoetegui Shakspeare avesse costituito un comitato segreto di vigilanza dai propositi bellicosi. Il processo si svolse in un clima infuocato e portò, il 13 marzo 1891, all’assoluzione o all’impossibilità di giudizio per insufficienza di prove a carico dei diciannove imputati dell’omicidio del capo della polizia. I fuochi pirotecnici illuminarono la notte della little Palermo, mentre sventolavano decine di tricolori.
Vignetta satirica pubblicata sul periodico statunitense Puck il 25 marzo 1891. L’iscrizione recita: «Sopra ogni cosa. Le giurie codarde sono la prima causa del comando della mafia»
La risposta di sessantuno cittadini tra i più influenti di New Orleans non si fece attendere: con un pubblico appello sulla stampa, «tutti i buoni cittadini» furono invitati a ritrovarsi la mattina del 14 marzo, alle dieci, «davanti alla statua di Clay, per prendere provvedimenti per rimediare al fallimento della giustizia nel caso Hennessy». Questi credevano infatti che la “setta mafiosa” cui appartenevano gli imputati avesse corrotto la giuria. A testa bassa e con in braccio fucili Winchester, il corteo partì in direzione della prigione locale, il cui portone venne scardinato e da quel momento iniziò una “caccia all’italiano”, cella per cella. Pare che il direttore, ormai incapace di difendere la propria prigione, consentì ai diciannove italiani prosciolti e in attesa di scarcerazione di disperdersi nell’edificio per cercarsi un nascondiglio, e sembra che suggerì d’introdursi nel reparto femminile.
Furono trovati in undici, giustiziati nei modi più barbari. Sei di loro, nel tentativo di scappare, raggiunsero di soppiatto il cortile ma furono sorpresi dalla squadra omicida che sparò da sei metri di distanza dilaniandone i corpi. Uno di loro respirava ancora quando un colpo a bruciapelo gli asportò parte del cranio. Un altro ancora in stato di semi-coscienza venne trascinato fuori dalla prigione e percorse sulle teste della folla diversi isolati, dopodiché venne impiccato a un lampione e crivellato di piombo.
Nell’ultima impiccagione, questa volta a un ramo di un albero, il nodo si sciolse e il corpo cadde afflosciandosi per terra: «Fu una cosa orrenda e un gemito e un grido esplosero dalle migliaia di persone che vi assistettero – scrisse un giornalista – ma tre neri e una dozzina di bianchi issarono l’assassino in alto quanto consentiva la biforcazione del ramo. Il corpo non ebbe un fremito, né si mosse, né scalciò». Nell’assalto alle carceri trovarono la morte Pietro Monasterio, Joseph P. Macheca, Antonio Marchesi, Antonio Scaffidi, Emmanuele Polizzi, Antonio Bagnetto, James Caruso, Rocco Geraci, Frank Romero, Loretto Comitz, Charles Traina. Una pessima reputazione precedeva alcuni di loro, che avevano già diverse condanne penali alle spalle e non erano certo esempi di rettitudine in una città dove il malaffare era una costante.
Contro lo “zio Sam”
La cattiva fama delle vittime non poteva certo giustificare il massacro. Rischiando sulla propria pelle il console Corte si recò subito sul posto: «Vidi molti cadaveri appiccati agli alberi […] venni al consolato e tre neri si slanciarono contro di me e, per tenerli a bada, dovetti spianare il revolver». Su ordine del ministro degli Esteri italiano e capo del governo, il marchese di Rudinì, l’ambasciatore Fava inoltrò al segretario di stato Blaine una protesta formale invocando «misure energiche di protezione a pro dei regi sudditi; ed ho chiesto finalmente la punizione immediata dei colpevoli, autori, complici e istigatori del massacro».
Anche se uno specifico trattato stipulato nel 1871 tra governo italiano e il governo federale statunitense assicurava dal punto di vista della sicurezza e della protezione una equiparazione tra cittadini americani e italiani, i singoli stati americani godevano di autonomia legislativa. Se le autorità italiane chiedevano la punizione dei responsabili e un’indennità per le famiglie delle vittime, il governo federale era impossibilitato nell’immediato a dare risposte concrete. In breve, le leggi americane non consentivano al governo d’intervenire su un proprio stato e, al contempo, l’Italia non poteva chiedere al proprio interlocutore un’azione contraria alle proprie leggi. I rapporti si deteriorarono e, tra la fine di marzo e il mese di aprile, i due Paesi ritirarono i rispettivi ambasciatori.
I giornali statunitensi intrapresero campagne sensazionalistiche coronate da vignette antitaliane e fecero correre la voce che l’Italia stesse preparandosi a delle rappresaglie navali sulle coste americane. Di Rudinì e re Umberto venivano addirittura rappresentati mentre affilavano degli stiletti, tipica arma della mafia italiana secondo uno stereotipo abbastanza in voga negli Stati Uniti, preludio a una guerra contro lo “zio Sam”.
Il 5 maggio 1891 il Gran Giurì di New Orleans scagionò i responsabili del linciaggio adducendo la motivazione che non era possibile processare una città intera che aveva agito senza premeditazione. Considerata poi l’appartenenza delle vittime alla “setta mafiosa”, i giudici alzarono il tiro scagliandosi contro il governo italiano che «preferirebbe non aver a che fare con essi anziché curarsi della loro custodia e del loro castigo». La crisi diplomatica si sarebbe protratta fino al 9 dicembre del 1891 quando il presidente Benjamin Harrison nel discorso annuale al Congresso bollò il linciaggio di New Orleans come «un’offesa alla legge ed un crimine contro l’umanità». L’atto diede avvio alle pratiche risarcitorie per un totale di 125mila franchi a famiglia. Tuttavia il presidente si sentì di precisare che nonostante «l’offesa non sia stata inflitta dagli Stati Uniti, il Presidente ritiene che sia un solenne dovere».
Il problema della revisione della Costituzione degli Stati Uniti venne posto l’anno successivo dal senatore Dolph con una proposta di legge che prevedeva un ampliamento dei poteri del governo federale sulla giurisdizione dei singoli stati per quanto riguardava la protezione degli stranieri. La proposta non passò perché giudicata incostituzionale ma, come scrisse Fava «rimarrà sempre all’Italia il vanto di avere, per prima, attirata l’attenzione di questo governo su di una imperfezione della legge qui vigente, per quanto concerne i rapporti con le nazioni estere». Le scuse della città di New Orleans sarebbero arrivate 128 anni dopo, nel 2019, firmate dalla sindaca democratica LaToya Cantrell a seguito di una campagna per riparare a «una ferita di vecchia data» condotta da alcune associazioni italo-americane di New Orleans.