Il rispetto degli ingredienti nell’odierna «cucina di prodotto» rovescia il secolare primato di una creatività culinaria molto invasiva
DI MASSIMO MONTANARI
Naturale vs artificiale
Dalle culture dell’alimentazione al culto degli alimenti. Così si intitola un volume appena pubblicato dall’Università di Coimbra (Portogallo) che raccoglie contributi di vari studiosi. Titolo suggestivo, da cui prendo spunto per una piccola riflessione: il «culto degli alimenti», ovvero l’importanza assegnata ai prodotti, ai singoli ingredienti di una preparazione culinaria, è un’ossessione tipica del nostro tempo. Non che sia mai mancata l’attenzione alla qualità, alle proprietà, all’origine dei prodotti: per quanto riguarda la tradizione italiana basta pensare all’umanista Platina (XV secolo) che nel trattato Sul piacere onesto e la buona salute prende in esame i prodotti a uno a uno, descrivendone le caratteristiche e le virtù secondo i consolidati schemi della precettistica medico-dietetica, però soffermandosi anche sulle particolari qualità di ciascuno a seconda dei luoghi di provenienza e dei metodi di trattamento; o a Bartolomeo Scappi, il cuoco più celebre dell’Italia rinascimentale, che precisa in modo dettagliato, piatto per piatto, l’identità dei prodotti serviti in ogni evento conviviale. Tuttavia, nella cultura medievale e rinascimentale – e così nei secoli successivi
– quello che potremmo chiamare «elogio dell’ingrediente» cede sempre il passo all’attività di trasformazione, a un lavoro di cucina che tende decisamente a imporsi sulla «naturalità» degli ingredienti. Ciò che prevale, nella cultura gastronomica d’antan, è l’idea dell’artificio, capace di migliorare la natura inventando nuove forme e consistenze, nuovi colori e sapori. Nelle cronache medievali e rinascimentali il termine artificio – con gli aggettivi e gli avverbi che ne derivano: artificioso, artificiale, artificiosamente… – è sempre usato in senso positivo. Non è il prodotto a richiamare l’attenzione, ma il lavoro che si fa su di esso per piegarlo a fini creativi, non sempre rispettosi della sua «personalità». Questi procedimenti invasivi si riconoscono non solo nella cucina creativa dei cuochi di corte o di palazzo, ma anche nella cucina popolare che dà la preferenza a minestre e zuppe di lunga e lunghissima cottura, dove il singolo ingrediente tende a scomparire in un tutto omogeneo, diventando spesso irriconoscibile. In un modo o nell’altro, ciò che si valorizza non sono le caratteristiche naturali dei prodotti ma l’attività di cucina e di trasformazione.
Il successo di quella che oggi siamo soliti chiamare «cucina di prodotto», basata sul rispetto di ciò che la «natura» offre, sul piano storico è un’assoluta novità, figlia di un pensiero che si affaccia con la rivoluzione illuminista del Settecento (leggi Jean-Jacques Rousseau) rovesciando criteri di giudizio consolidati da secoli. È sulla scia di quel pensiero che a poco a poco ci siamo abituati a pensare che «naturale» è sinonimo di buono, mentre delle cose «artificiali» è meglio diffidare. Fino a non molto tempo fa, si pensava piuttosto il contrario.
Fonte: La Cucina Italiana