“Usando un termine allora non ancora in voga, potremmo dire che quell’attentato fu il primo esempio di “guerra ibrida”. Per i terroristi eravamo l’anello debole della Coalizione, la nazione occidentale meno in grado di reagire ordinatamente a una strage. Colpendoci, volevano fare piazza pulita dell’idea stessa che un gruppo di nazioni potesse mandare i propri soldati a consolidare la pace. Ma questo non avvenne perché il nostro Paese reagì con un grande scatto di orgoglio solidarietà. L’Italia pianse i propri soldati, ma non rinunciò a celebrarne l’onore. Nessuno si azzardò a dire che la loro morte era stata inutile o vana. L’opinione pubblica si strinse intorno a loro e riconobbe che il loro sacrificio era stato cruciale per il Paese e per la comunità nazionale e internazionale. Nella tragedia assistemmo a un passaggio culturale essenziale per la crescita della Nazione”. Così il ministro della Difesa, Guido Crosetto in una intervista al Giornale, in occasione dei 20 anni della strage di Nassiriya, nella quale persero la vita 19 italiani (5 soldati, 12 carabinieri e 2 civili).
“Quando, venti anni fa, sono venuto a sapere, all’improvviso, della strage di Nassiriya – dice Crosetto – insieme al dolore, all’angoscia, al pianto, ho capito subito che eravamo ad una svolta cruciale e che la partecipazione a missioni internazionali includeva anche la possibilità di partecipare o subire eventi drammatici. Ma quel giorno capii anche un’altra cosa. Chi presta servizio nelle Forze Armate rischia ogni giorno la sua vita per assolvere il proprio dovere. Ecco perché il suo lavoro non può essere considerato uno dei tanti, “normali”, lavori e comparti del lavoro pubblico”. (AGI)